Era un folle,
schizofrenico e paranoico, dicono gli psichiatri. Uno di loro, Hans
Prinzhorn, lo affiancò, tra gli altri, a Van Gogh, Nolde e Kokoschka in
un saggio del 1922 dal titolo significativo: L’attività plastica nei
malati di mente. Pazzo, ma pure uno dei padri dell’arte moderna; tanto
innegabilmente grande da essere fatto barone, nel 1929, da re Alberto I.
E certamente fu un profeta. Dipinse, almeno tre decenni prima che se ne
sentisse lo scricchiolio degli stivali, l’avanzata dei totalitarismi.
Rappresentò la nostra società, omologata e massificata, prima che esistessero
la radio o la televisione. Disse con i pennelli quel che poi avrebbero scritto Ortega
Y Gassett ePasolini. Prese tutti gli Eichmann di
ogni regime, mise loro addosso una maschera e con loro riempì una tela.
Lui, nato a
Ostenda nel 1860 e vissuto in quella città sino alla morte, avvenuta nel 1949,
è James Ensor. La tela di cui parlo è un grande olio, alto due
metri e mezzo e largo più di quattro: L’entrata di Cristo a Bruxelles,
oggi al Getty Center di Los Angeles.
Della vita del
pittore c’è poco da dire. Figlio di una belga e di uomo d’affari d’ascendenza
inglese, troppo amante della bottiglia ma che perlomeno non ne ostacolò mai la
carriera, Ensor cominciò a dipingere presto. Già a quindici anni iniziò a
frequentare gli studi di un paio di pittori di fama locale. Da loro imparò i
rudimenti del mestiere, che perfezionò in un triennio all’Accademia di Belle
Arti di Bruxelles. Dopo di allora, sempre a casa. Letteralmente. Non solo
dimostrò per i viaggi la stessa avversione che fu poi celebre in Magritte,
ma, fino al 1917, dipinse in uno studio ricavato nella soffitta della dimora
paterna.
Poco da dire ci
sarebbe anche della sua arte se fosse rimasta quella degli esordi; le stesse
scenette realistiche che continuò a dipingere, con belle pennellate grasse, ma
pure senza il minimi squillo di colore, anche dopo lasciata l’Accademia.
Qualcosa, però, accade. Nel suo spirito come, soprattutto, ai suoi quadri.
Rappresenta ancora una scenetta in un interno, Le maschere che danno
scandalo, una sua tela del 1883 oggi al Museo di Belle Arti di Bruxelles,
ma non vi è già più nulla di tranquillizzante, di “borghese”. È torva,
l’atmosfera che la domina; sono agitate, scomposte, le pennellate che ne
agitano il fondo. Vi compaiono, per la prima volta in un suo quadro, appunto le
maschere. Quelle che sua madre vende, sotto carnevale, nel proprio negozietto
di cianfrusaglie e che tutta la città “bene” indossa, in occasione del Bal
du rat mort con cui celebra il carnevale. Maschere che il pittore
tornerà a dipingere, ossessivamente, in quadri dai colori sempre più
sgargianti, dalle pennellate sempre più furiose, i cui soggetti, con o senza
maschera, hanno sempre più l’aspetto di caricature.
Maschere e
caricature, ridanciane e sguaiate, che lì in primo piano, paiono debordare
dall’Entrata di Cristo in Bruxelles per precipitarci addosso. Tanto
sfrenate e colorate da prendere la nostra attenzione e non lasciarla, per un
lungo istante.Folla che si auto-celebra, che si auto-consuma, come
quella di ogni grande rituale collettivo; che minaccia di travolgerci o,
forse ancora peggio, di avvolgerci. Di fare, anche di noi, folla.
E quei loro
volti? Le maschere
non celano proprio nulla; rivelano, anzi, la peculiare, gioiosa e spensierata
ferocia di ognuno. È una massa, quella che popola il quadro, ma di individui,
ciascuno reso ancor più identificabile proprio da quei tratti caricaturali.
Tanto che, uno per uno, ci sembra di riconoscerli; quello potrebbe essere il
collega, quell’altro un nostro zio e quella signora nell’angolo sinistro, la
nostra vicina di casa.
E noi? Forse
temiamo di vederci tra loro, magari in uno di quei profili crudeli che paiono
essere arrivati lì dal Cristo portacroce di Bosh.
Allarghiamo lo sguardo; cerchiamo rassicurazioni contemplando l’opera nella sua
totalità. Non le troviamo. Capiamo di trovarci di fronte ad una sfilata
carnevalesca e riusciamo a dirci che, in fondo, il quadro di Ensor non è troppo
diverso da uno dei pandemoni di Bruegel, ma questo non ci
tranquillizza. Non può farlo quella che etimologicamente è una “congregazione
di tutti i demoni”. Non può farlo una pittura che non ha nulla della tenerezza,
del con-sentimento, che non manca mai in Bruegel.
Una pittura violenta
in tutto. Nei colori, con quel verde e quel rosso che si prendono a cazzotti.
Nel modo con cui sono stesi; col pennello, con la spatola, forse anche con le
dita. Ensor precorre gli espressionisti, dicono i manuali. L’Espressionismo,
come l’Impressionismo, è antico quanto la pittura, viene da dire, ma che quella
furia sia la stessa che ritroveremo in Kokoschka è indubbio, come non è
difficile immaginare una di quelle maschere, rimasta sola, mettersi a
lanciare l’urlo dipinto da Munch.
Un’opera che anticipa
la pittura dei decenni successivi, compresa quella dei grandi muralisti
messicani che vi videro tanto un esempio di impegno sociale quanto un
modello da seguire per raccontare le proprie storie corali. Un capolavoro,
dunque, L’entrata di Cristo in Bruxelles, ma anche un bel quadro?
Se per bellezza si intendono armonia e simmetria neoclassiche, certamente no.
Se si ricordano proprio i versi dell’Ode su un urna greca di Keats,
assolutamente sì. Se verità è bellezza e Ensor, rappresentando a quel modo la società
della Bruxelles di allora, capitale del Belgio colonialista dal “cuore di
tenebra”, ci ha mostrato quel che per lui era la pura verità.
Ci resta da
rispondere sono una domanda. Ma dov’è Cristo? È la, dietro
alle bene ordinate file di marionette in divisa che seguono il gagliardetto
della “fanfara dottrinaria”. Lo individua una grande aureola gialla, me è pure
l’unica figura del dipinto non ridotta a caricatura. Esattamente come nel
Cristo portacroce di Bosch, è l’unico ad essere ancora perfettamente umano.
L’ateo Ensor, ci dicono le sue biografie, si identificava con quel Cristo:
solo, isolato, perso in una massa irriflessiva capace di crocifiggerlo con lo
stesso entusiasmo con cui ne sta accogliendo l’arrivo. Preferisco pensare che
in groppa a quell’asinello ci possa essere chiunque di noi. Chiunque non
accetti la follia dei tempi e si ostini a conservare l’uso della propria
ragione a costo di essere emarginato. Di essere considerato, nella migliore
delle ipotesi, solo un povero Cristo.
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Un'analisi di questo quadro, L'entrata di Cristo in Bruxelles di James Ensor (pittore belga, 13 aprile 1860 - 19 novembre 1949), appassionata e partecipe, che mi piace condividere, anche se nell'osservazione di un'opera d'arte preferirei un maggior distacco, diciamo da tecnico puro.
RispondiEliminadal punto di vista interpretativo, desidero attrarre l'attenzione sullo striscione sovrastante la folla, con la scritta "Vive la Sociale", che chiamo a conforto della mia convinzione sulla persona di Cristo: il primo socialista della storia umana.