"METROPOLIS" DI OTTO DIX. ATTENDENDO CHE TUTTO CAMBI. O ESPLODA



"Anche i vincitori della lotta per la sopravvivenza (...) non conoscono la gioia in un mondo che ha perso le proprozioni; subiscono o solo accettano una modernità che gli è precipitata addosso, ma non hanno cercato e voluto. Una modernità che in Europa è nata, ma è maturata altrove".
La sera scorsa, per non so quale ragione, ho sentito il bisogno di rivedere, su un bel libro che ho comprato per pochi soldi (sì, se ne trovano ancora) un capolavoro che conosco molto bene e che ho avuto la fortuna d’ammirare, non troppi anni fa, nella galleria d’arte della città di Stoccarda: “Metropolis” o “Il trittico della metropoli” dipinto dal pittore tedesco Otto Dix nel 1928.
I tre grandi pannelli di compensato dipinti da Dix (sono alti 1,80 m; il centrale largo 2,00 m e i due laterali larghi 1,00 m) compongono un’opera che non è grande solo per le sue dimensioni; è una delle chiavi di volta della pittura del ‘900 e basterebbe da sola a testimoniare la grandezza, prima di tutto intellettuale, del suo artefice.
Nulla è casuale in “Metropolis” (che fu studiata in ogni dettaglio, come testimoniano i suoi cartoni preparatori pure esibiti a Stoccarda, durante una gestazione durata almeno un bienno) e ogni decisione presa dal pittore ha ragioni profonde; mirava a realizzare un’opera d’arte totale che non affidasse solo al segno e al colore il proprio messaggio.
Nella scelta del trittico, un formato che associamo alla grande pittura di soggetto religioso tardo gotica e alto rinascimentale, non c’è solo l’affermazione decisa del programma realista-espressionista di fare della realtà, dura e spietata, il centro dell’attenzione dell’arte; di “elevare agli altari”, con un gesto in sé rivoluzionario, le tragedie di un’intera società andando oltre lo psicologismo puramente espressionista e i compiacimenti dell’astrazione. C’è, nella scelta del formato come in quella della tecnica pittorica (velature e colpi di luce ad olio su una base di tempera) e della tavolozza, pure derivate dal primo rinascimento, in particolare tedesco, il desiderio di alzarsi sopra la confusione del proprio tempo; di rifare il percorso dalle origini della modernità per comprendere come ci si sia perduti.
Chi mi spiegò la musica di Anton Webern, un altro artista che come Dix fu considerato degenerato dai nazisti, mi disse che nelle sue opere “lo spirito della musica europea interroga se stesso”. Mi sento di ripetere, per Dix, la stessa affermazione: in “Metropolis” lo spirito della pittura occidentale medita guardandosi allo specchio. Di più; nel Dix di “Metropolis”, nella sua attenzione alla stesura e consistenza del colore, è già presente quel che sarà Rothko: la pittura, nonostante tutto, scopre di avere, in sé, un valore.
Non furono queste finezze intellettuali a scandalizzare i Nazisti, ad ogni modo; fu quel che “Metropolis” mette in scena: la tragedia di un paese sconfitto, la Germania negli anni successivi la Prima Guerra Mondiale; di un mondo che non s’avviava verso il futuro, ma, per paura e non per realismo, circoscriveva al suo adesso il confine del proprio tempo.
Nel pannello centrale Dix ci mostra l’interno di una sala da ballo; quelli sono i folli anni venti e in Europa impazza il Charleston. L’orchestrina suona con passione, una coppia balla. Una grande figura di donna sta sola, le gambe muscolose, il trucco pesante, in primo piano. E’ il centro visivo della composizione. Indossa un’abito leggero che scende fino al pavimento in un panneggio che pare imitare le ali ripegate d’un uccello. O di un angelo. Agita, a tempo di musica, un ventaglio di piume di struzzo rosa, una cresta o un un aureola, la giovane donna-uccello (o forse angelo) dal profilo aquilino, mentre una coppia di borghesi, lui ben vestito e lei debitamente ingioiellata, osservano la scena. Osservano ma non si godono; per qualche ragione nessuno sembra davvero divertirsi. Anche noi siamo disturbati da qualcosa in un’immagine che, apparentemente, rappresenta un momento gioioso. Forse sono le torsioni drammatiche di certe linee, ancora quelle gambe troppo muscolose delle donne; forse sono le espressioni dei volti.
Ci accorgiamo solo poi che è lo spazio stesso, dentro l’immagine, a non funzionare; che le doghe del parquet ,distorte e completamente fuori scala, suggeriscono delle relazioni spaziali tra le figure che sono poi completamente negate-falsificate dal resto della composizione. Anche i vincitori della lotta per la sopravvivenza, pare ci dica Dix, non conoscono la gioia in un mondo che ha perso le proprozioni; subiscono o solo accettano una modernità che gli è precipitata addosso, ma non hanno cercato e voluto. Una modernità che in Europa è nata, ma è maturata altrove. Gli sconfitti, stanno nei pannelli laterali: sono i mutilati e gli sfigurati della Grande Guerra, vittime del cannone che fu la macchina per antonomasia della prima vera guerra di macchine; sono le prostitute e gli altri rifiutati di una società ridotta a somma d’egoismi individuali. Stanno anche loro in spazi deformati dentro una realtà che ha perso la propria prospettiva, in una città fatta d’opulenza posticcia e reale squallore.
L’indifferenza domina “Metropolis”. L’indifferenza espressa del cadavere del soldato abbandonato al suolo, nell’ala destra del trittico; l’indifferenza ostentata dai passanti nei confronti del medicante, che in guerra ha perso le gambe e il volto, che siede nella via cittadina rappresentata nell’ala sinistra. L’indifferenza e un concreto, solido, senso d’angoscia. Otto Dix completò il quadro a Dresda, ma la città che vi è rappresentata è Berlino dove, dopo essere tornato dal fronte, l’artista aveva vissuto fino a poco prima.
“Metropolis” è, più in generale, un ritratto della Germania di Weimar: un paese dove “tutto poteva esplodere da un momento all’altro” e dove la gente “viveva come in una sala d’attesa” per citare un’opera di Erich Kaestner di cui, peraltro, conosco poco altro.
Una grande opera, quella di Dix, ma forse non la scelta migliore per far passare una mezz’ora di solitudine in una serata di pioggia e vento. Chissà, mi chiedo ancora, perché proprio di questi tempi mi è venuta voglia di rivederlo.


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