LA RESURREZIONE DI PIERO: IL VERO SIMBOLO DELLA RINASCITA

"La Resurrezione" di Piero: il più rinascimentale dei dipinti rinascimentali che può essere assunto a vero e proprio simbolo della rinascita.
Tra i pellegrinaggi che devo ancora compiere, c’è quello a Sansepolcro per ammirare le opere di Piero che vi sono conservate e per cercare di scoprire se è anche nel paesaggio di quella terra di confine, ancora Toscana, ma prossima ad Umbria e Marche, il segreto della sua straordinaria visione; della magia delle sue immagini che mi ostino a pensare non possa essere tutta e solo nei segreti numeri delle prospettive su cui sono costruite.
Trasgredirò dunque alla regola che mi sono imposto, di non parlare di opere che non ho avuto modo di vedere dal vero, nel commentare con voi la Resurrezione, che si trova ancora oggi nel luogo in cui fu dipinta: la residenza, il Palazzo del Governo, oggi diventato Museo Civico, della cittadina dove Piero nacque, nel 1416 o 17, con cui sempre mantenne i contatti, e dove morì, il 12 ottobre 1492, lo stesso giorno in cui fu scoperta l’America, dopo aver lavorato e viaggiato un po’ ovunque tra Roma e Bologna. Lo farò, tornerò a guardare la Resurrezione, non perché si avvicina la Pasqua o, per quanto io possa ammirare l’autore de Il mondo nuovo, perché Aldous Huxley disse che si trattava "della più bella pittura del mondo", ma piuttosto perché, mentre la ragione non mi lascia che dubbi, voglio sperare che possa rappresentare il momento che sta vivendo il nostro Paese.
Non si sa la data esatta in cui Piero realizzò l’affresco, un riquadro di circa due metri di lato; probabilmente lo iniziò dopo il primo febbraio 1459 (e questa, oltre al nome stesso della cittadina, potrebbe essere la ragione della scelta del soggetto), quando i fiorentini restituirono alla cittadina una qualche forma di autonomia e, con questa, il Palazzo del Governo ai suoi abitanti. Di certo La Resurrezione appartiene alla sua piena maturità; agli anni in cui dipinse il ciclo delle Storie della Vera Croce, nella cappella maggiore della Basilica di San Francesco ad Arezzo, una delle vette del Rinascimento.
La sua arte, per allora, si era già perfettamente definita. Aveva già lavorato con Domenico Veneziano, ne aveva visto i colori ed aveva imparato a dominarli nella luce, assolutamente mentale, altissima e morbida ad un tempo, del proprio eterno mezzogiorno. Aveva studiato Masaccio, aveva fatto propria la solida plasticità delle sue figure ed aveva appreso come inserirle nello spazio matematico, razionale, della prospettiva brunelleschiana, arrivando a quel dominio dei volumi che lo avrebbe fatto accostare poi, da Roberto Longhi per primo, a Cezanne.
Aveva già viaggiato molto; a Ferrara, in particolare, aveva incontrato Rogier Van der Weyden o perlomeno ne aveva visto le sue opere: una conoscenza dei fiamminghi testimoniata, oltre che dall’uso precoce che fece dell’olio, dal suo interesse ai più minuti dettagli. Un’attenzione ai particolari che, tornando alla Resurrezione, possiamo ritrovare, per esempio, nella resa meticolosa, piega per piega, del panneggio, di croccantezza quasi gotica, che avvolge la figura del Cristo: un pezzo di pittura dalla straordinaria difficoltà, considerando le limitazioni della tecnica dell’affresco e la rapidità d’esecuzione che impone.
Lo schema compositivo dell’opera è, in sé, semplicissimo; un alto triangolo, che ha per base il gruppo dei quattro soldati e per vertice l’aureola sulla testa del Cristo, cui dà ulteriore slancio la bandiera crociata, simbolo della parte guelfa o, secondo altri, semplicemente della resurrezione.
Il Cristo, risorto, domina. Lo spazio pittorico e noi stessi. E’ una delle figure più straordinarie della storia dell’arte; per descriverla generazioni di critici hanno sprecato aggettivi. “Ieratico” e “solenne” per molti, era “atletico” per Huxley e incomparabilmente più “astratto” di qualunque fosse stato dipinto prima per Longhi (il grande maestro della nostra critica; nella mia raffazzonata cultura ho letto la sua Breve ma veridica storia dell’arte solo molto tardi, dopo averlo sentito citare da Federico Zeri). Ci sta perfettamente di fronte. E’ eretto, con il piede sinistro appoggiato al bordo del sepolcro (un sarcofago d’ispirazione classica) ed il destro ancora dentro di questo. Nella destra regge l’asta della bandiera crociata, con la sinistra, appoggiata al ginocchio, sostiene il proprio panneggio. Ci guarda; pare, anzi, guardarci attraverso, mentre ci mostra, impassibile, le piaghe della propria passione. E’ di questo mondo, ma non come lo siamo noi.
Facendo un confronto con i soldati che giacciono addossati al sarcofago, ci accorgiamo che Piero, per accentuare questo effetto, lo ha dipinto con un punto di vista diverso, all’altezza del nostro sguardo, rispetto questi, visti da un livello solo di poco più alto di quello del suolo. Hanno gli occhi chiusi i quattro. Ignari, dormono. Uno di loro, quello che ha il volto nella nostra direzione, la schiena appoggiata al sepolcro e tiene il capo a contatto con l’asta della bandiera è, con tutta probabilità, lo stesso Piero.
Il Cristo vigile e un’umanità ancora assonnata. Una contrapposizione, opposta a quella dipinta da Bosch nel suo Portacroce (lì è Gesù che si avvia al Calvario, tra gli sguardi folli delle gente, l’unico a tenere gli occhi chiusi), dentro un dipinto straordinario anche perché, nella sua unità e coerenza, tutto fatto di contrapposizioni. La prima che l’occhio coglie, per la sua grande enfasi visiva, quella generata dall’incontro della massa chiara del sarcofago, che divide orizzontalmente il dipinto, con quella verticale del corpo di Cristo. Una “linea” che seziona il paesaggio in due metà pure contrapposte, come ci accorgiamo dopo aver superato l’impatto con la visione del Risorto: è inverno e gli alberi sono spogli, alla destra del dipinto, dove la gamba del Cristo è ancora nel sepolcro; è invece primavera a sinistra, e lì la natura si lascia ammirare rigogliosa.
Contrapposizioni che sono simbolo di quella suprema, tra la vita eterna e l’esistenza mortale, che è il tema centrale di questo che è il più rinascimentale dei dipinti rinascimentali e che del Rinascimento, della rinascita, può essere assunto a vero e proprio simbolo. Un'icona di quella vita nuova che oggi, mentre ancora non si vedono i fiori della primavera, credenti o no, possiamo solo augurare a noi stessi e all’Italia.

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