Ci sono quadri che ci lasciano a bocca aperta; che ci colpiscono a prima vista e aggirando, per così dire, il filtro della nostra intelligenza critica si rivolgono con immediatezza a zone più profonde, forse più primitive, del nostro spirito.
E’ sicuramente il caso, per me, della “Morte di Sardanapalo”, una grande tela, di circa quattro metri per cinque, che Eugène Delacroix dipinse nel 1827 e che, con “la Zattera della Medusa” del suo amico ed ispiratore Gericault (Delacroix
scelse “La barca di Dante” come tema del suo primo grande dipinto
proprio perchè affascintato dalla Zattera) costituisce uno dei manifesti
del romanticismo in pittura.
Un manifesto, come tale pensato e voluto, che Declaroix, sostenitore di
una nuova pittura, memore delle lezioni dei grandi veneti e di Rubens,
fondata sul colore ed i giochi di luce esprssion con vigorose
pennellate, dipinse al culmine della polemica che lo opponeva ad Ingres,
caposcuola del neoclassicismo, che praticava invece una pittura
meticolosa, controllata, in cui primarie erano la nobiltà del soggetto e
la perfezione del disegno.
Se l’esaltazione del colore era il suo obiettivo, vien subito da dire,
il pittore lo ha certamente raggiunto; è proprio il colore, la grande
diagonale rossa che taglia il quadro, la prima cosa che lo spettatore
nota quando entra nella sala del Louvre dove l'opera è esposta.
Solo poi, una volta superato l’impatto di quella freccia scarlatta,
l’occhio si sofferma sulle figure; sulle candide carni della fanciulla
che, in primo piano, sta per essere sgozzata; su quelle della donna che,
forse invocando pietà, si getta ai piedi del sovrano.
Il sovrano, ammantato di bianco, con la corona sul capo, adagiato in
mezzo a tutto quel rosso; che il rosso pare dominare, ma da cui è,
ultimamente, definito e circoscritto.
Cerchiamo di coglierne l’espressione; è già lontano. E’ una presenza -
assenza, la sua. Il drama di cui è protagonista e causa prima sembra non
riguardarlo: se pensa a qualcosa, è qualcosa fuori dal quadro. Pensa, e
di questa chiusura è simbolo il manto che si avvolge più stretto alle
spalle, a se stesso.
Irresistibilmente attratti, ci avviciniamo al dipinto.
Nel farlo veniamo sommersi da un ondata di simboli e immagini; di
personaggi e dettagli che occupano ogni millimetro d’un’opera
straordinariamente barocca; se a Rubens avevamo subito pensato, vedendo
quei grandi nudi, allo stesso fiammingo siamo ora sicuri che il pittore
debba qualcosa di quella fantastica abbondanza compositiva.
A Rubens, ma anche a Veronese e alle sue straordinarie, affollate e splendenti, celebrazioni della gloria della Serenissima.
Avvicinandosi ulteriormente l’opera perde la propria unità; si
suddivide in una serie d’istantanee: il cavallo bianco, dai ricchissimi
finimenti, impazzito di paura e il moro che pare lo stia
uccidendo; l’ancella che porta il ricco vassoio con un calice ed una
brocca ancor più ricchi, l’enorme testa dorata d’elefante che orna un
angolo del giaciglio del sovrano e ovunque scene di violenza. Violenza
che avviene o sta per avvenire in un ambiente stracarico di tutti gli
ori che la fantasia romantica può attribuire all’oriente.
A due passi dall’opera anche le figure si decompongono; come in un un
viaggio nel tempo siamo passati da Rubens a quel che sarà Van Gogh. Le
pennellate di Delacroix, grasse, ricche, decise, scolpite nel colore più
che dipinte, diventano ora lo spettacolo di cui si ciba il nostro
occhio.
Entriamo nella superfice pittorica, come attratti dalla pura energia di
quei gorghi di colore; ci troviamo, come ci accade proprio con i
migliori Van Gogh, a nuotare tra dense correnti di colori primari.
Restiamo, perlomeno succede a chiunque sia pittore, prigionieri
di quella magia; di quel congelarsi sulla tela dell’atto della
creazione.
Ci sono già in quell’opera, come in tutti i veri capolavari, i germi
della pittura che verranno nei secoli successivi: dall’impressionismo al
divisionismo; dall’espressionismo al gestuale.
E’ solo quando riusciamo ad uscire dal quadro, quando ce ne
allontaniamo ricostruendone l’unità perduta , che iniziamo ad
interrogarci sul suo significato; l’emeneutica, dico sempre, viene dopo.
Romantico il dipinto; romanticissimo il suo soggetto tratto da un opera
del più romantico dei poeti, la tragedia “Sardanapalus” di Lord Byron,
che Delacroix poteva aver conosciuto durante il suo soggiorno inglese o
aver letto nella traduzione francese che era stata pubblicata pochi anni
prima della realizzazione del dipinto.
Sardanapalo, o Assurbanipal come lo chiamiamo ora, l’ultimo grande re
assiro, sta per essere rovesciato da una congiura. Circondato dai
rivoltosi ordina agli ultimi fedelissimi di preparare un gigantesca pira
con tutti i suoi averi e di sgozzare, perchè muoiano con lui, le sue
concubine, i suoi eunuchi, i suoi cavalli e i suoi cani.
Un istante dopo quello che Delacroix ha rappresentato, il
sovrano berrà il veleno, donne, schiavi ed animali saranno uccisi e
tutto verrà dato alle fiamme.
Una storia tragica, fatta apposta per colpire l’immaginazione
romantica, sia per la sua drammaticità che per la sua ambientazione
orientale, entrata nella tradizione occidentale grazie a Diodoro Siculo
che la riporta nella sua “Biblioteca historica”, che ha ispirato Byron,
che ha ispirato Delacroix. In uno di quei concatenarsi si opere che
tanto mi affascinano, il dipinto e la tragedia hanno quindi ispirato
Berliotz, che nel 1830 scrisse una cantata, “La mort de Sardanpale”, e
poi Franz Liszt che ne trasse un opera, “Sardanapale”, rimasta
incompiuta.
Un motivo ricorrente, dunque, quello del tiranno che, di fronte alla
perdita del potere, s’isola in se stesso, smette di curarsi della
realtà, e infine non esista ad ordinare la distruzione del mondo di cui
fu signore e di cui non può accettare la perdita.
Un motivo tutt’altro che di fantasia; quanti dittatori e tiranni, dopo
Assurbanipal, si sono comportati così? Il nome di Hitler, sono sicuro,
vi sarà venuto alla mente; altri nomi li troviamo sulle pagine dei
giornali.
La fine di altri sardanapali, invece, è materia dei nostri sogni e dei nostri incubi.
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