GUIDORICCIO DEI MISTERI

Un affresco di cui si sa, in realtà poco o nulla. Un capolavoro che molti ormai negano essere tale. Un testo pittorico di cui vi offro una lettura fatta, prima che da artista, da spettatore delle cose dell'arte.

Tiene gli occhi fissi innanzi a sé il cavaliere; è un uomo in missione, come mostra la fermezza della sua mascella. In groppa al suo palafreno è monumento a se stesso; avanza inesorabile eppure pare una statua, al centro del dipinto. E’ questa ineffabile opposizione tra il movimento, suggerito dagli zoccoli del cavallo a mezz’aria, e la sensazione di un’assoluta immobilità a colpirci, quando, entrati nella sala del Mappamondo, nel Palazzo Pubblico di Siena, per la prima volta vediamo là in alto, sulla parete opposta a quella dove Simone Martini ha dipinto la sua Maestà, una delle immagini più forti della storia della nostra pittura. Si tratta di Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi, uno di quei dipinti, e sono davvero pochi, destinati a restare impressi nella nostra memoria dopo un solo sguardo: un’icona, nel senso moderno della parola, emblematica quanto il toro straziato di Guernica e riconoscibile quanto un taglio di Fontana.
Cavalca in un deserto, Guidoriccio, ci accorgiamo subito. In un doppio deserto, anzi: quello che si estende ai suoi lati, dipinto senza una sola pennellata di verde, solo con gli ocra delle terre di Siena naturale e bruciata, e quello, che gli sta sopra, di un minimalista cielo senza nubi, ampia campitura assolutamente monocroma di un blu oltremare appena più rosso di quello, splendido, che riempie occhi di chi ha la fortuna di ammirare l’opera di Giotto nella Cappella degli Scrovegni.
Un deserto, quello che il condottiero attraversa immobile, che non è vuoto; alla sua destra una rocca turrita, addossata a un borgo cinto da mura, in cima ad un’erta collina difesa, a suo volta, da un’aguzza palizzata da cui spunta un muro di lance. E’ questa la Montemassi da conquistare? Non possiamo, e vedremo poi il perché, esserne certi, come non possiamo sapere quale altra rocca, circondata da un doppio fossato, sia rappresentata immediatamente alla sinistra di Guidoriccio. Deve essere nelle mani delle truppe al suo comando, questo lo possiamo dire, perché la Balzana, lo stendardo bianco e nero della Repubblica Senese, sventola da uno dei suoi pennoni, accanto alla sagoma di una catapulta o di una qualche altra macchina d’assedio.
Sono sempre le balzane che garriscono a dirci che le tende là in fondo, all’estrema destra rispetto al cavaliere, sono l’accampamento delle milizie senesi, come un’altra Balzana, in cima al colle più alto, ci mostra che sempre senesi sono le tende che là sono issate.
Non mancano i dettagli, dunque, nel paesaggio che dovrebbe essere lo sfondo dell’impresa di Guidoriccio, eppure questi non bastano a riempire i quasi dieci metri della sua larghezza. Ci resta l’impressione di trovarci davanti ad uno spazio vuoto; a una prosecuzione, altrettanto astratta e rarefatta, seppure dipinta “con altri mezzi”, del fondo oro delle pale su tavola trecentesche.
In quello spazio, soprattutto, ed è proprio questo che lo fa sembrare alieno e, nello stesso tempo, lo rende il vero protagonista dell’affresco, vi sono oggetti e edifici, ma non uomini, animali, alberi o anche un solo filo d’erba. Non vi è vita e, come in una natura morta di Morandi, non vi può scorrere alcun tempo. Il Condottiero, dice qualcuno, vi pare incollato sopra, come se fosse stato dipinto solo in seguito. Forse. Di certo comprendiamo ora perché, nonostante la cura con cui l’artista ha reso gli svolazzi della sua gualdrappa, il cavallo sia destinato a restare congelato in quella posizione per l’eternità: è calato in uno spazio pittorico che non ammette movimento.
In una mano regge le redini, Guidoriccio, e nell’altra ha il bastone del comando. Il nostro sguardo coglie dapprima il suo ricco mantello, tinto dello stesso giallo e decorato con le stesse losanghe verdi che ornano la bardatura del suo destriero, ma sotto di questo, notiamo poi, indossa la corazza del guerriero. E’ un conquistatore o lo sarà presto, ma di un mondo spettrale, ridotto a gelido elenco di obiettivi ed inventario di risorse; non fosse per la feroce determinazione che gli si legge sul volto, l’affresco che dovrebbe celebrarne la gloria sembrerebbe la rappresentazione di un narciso che attraversa il panorama del proprio scarnificato universo interiore. Lo sguardo fisso del cavaliere e la sicurezza che affetta il suo contegno, invece, sono quelli di un uomo che punta dritto al proprio scopo senza curarsi d’altro; potrebbero appartenere, e non c’è bisogno d’aver letto Macchiavelli per dirlo, a un potente tra tanti, capitano d’armi o d’industrie, nobile o politicante, in qualunque epoca; potrebbero essere di un bigotto, se volete, o di chiunque se ne vada per la vita chiuso dentro la corazza delle proprie convinzioni e cieco ad ogni cosa che possa indurlo a dubitarne.
Nel contrasto tra l’espressione del soggetto e la riduzione ai minimi termini del suo ambiente, l’affresco potrebbe anche essere il ritratto, e da artista è difficile ammetterlo, di tanti per cui l’arte è fine auto-concluso; non bacio, schiaffo o carezza, per toccare l’altro oltre i limiti del linguaggio, ma fortezza in cui rinserrarsi e maschera dietro cui nascondersi.
Leggo troppo in quel cavaliere? Leggo, come accade a tutti per ogni testo, attraverso le lenti di una sensibilità che è mia personale ed è portato della mia natura, educazione e biografia.
Do troppa importanza a quel paesaggio che si potrebbe facilmente ricondurre alla cultura cortese e cavalleresca?
Alla fine potrebbe essere stato concepito come pura scenografia, ricostruzione ideale e fiabesca del reale non diversa da quelle che facevano da sfondo alle feste, ai giochi e alle rappresentazioni teatrali nelle corti. “La composizione si modifica con la superficie da coprire”, diceva però Matisse, che tornò a spiegare questo concetto con la celebre affermazione: “Un centimetro quadrato di blu non equivale a un metro quadro dello stesso colore”. Nel Guidoriccio quell’estensione di ocra non può, proprio per le sue dimensioni, essere considerata un mero fondale; qualunque fosse il programma dell’artista che la realizzò, qualunque cosa volesse rappresentare con essa, una sintetica descrizione delle colline grossetane bruciate dall’estate o una metafora della tragedia della guerra, questi la volle co-protagonista dell’affresco, rendendola, agli occhi dello spettatore, almeno tanto importante quanto il condottiero e il suo cavallo.
Questo, quel che ci sta dinanzi, è, peraltro, tra il poco che del dipinto possiamo davvero sapere.
Non conosciamo con certezza neppure il nome del suo autore, malgrado che in tutti o quasi i manuali sia presentato come opera Simone Martini, secondo una tradizione che trova il suo principale fondamento in un documento del 1330, conservato fino ai nostri giorni, con cui incaricava maestro Simone, dietro il compenso di sedici fiorini d’oro, di celebrare con un dipinto la conquista, che la Repubblica Senese aveva allora appena compiuto, dei castelli di Montemassi e Sassoforte. Un’attribuzione, però, che non ha mai convinto del tutto, tanto per ragioni stilistiche quanto iconografiche, studiosi del calibro di Gordon Moran e di Federico Zeri, e che è diventata ancora più dubbia dopo la scoperta, nel corso di un restauro avvenuto nel 1980, di un altro grande affresco, dipinto in una porzione inferiore della stessa parete del Guidoriccio, che era rimasto nascosto per secoli perché coperto dapprima dalla grande tavola circolare e girevole, su cui Ambrogio Lorenzetti aveva dipinto, nel 1345,la rappresentazione del globo che dava il nome alla sala, e poi, scomparsa questa, da una ridipintura. 
L’opera riportata alla luce in quella circostanza, pur danneggiata dai graffi infertigli dalla rotazione del mappamondo che vi era posto direttamente sopra, apparve subito straordinaria, per fattura e coerenza formale, tanto da lasciar pochi dubbi sul fatto che andasse attribuita a uno dei grandi maestri del trecento senese, e quindi ad Ambrogio Lorenzetti o allo stesso Simone Marini. Si tratta della rappresentazione della resa di una cittadina. Nella parte sinistra del dipinto stanno due personaggi; una grande figura in abiti civili, ma armata di spada, e un nobiluomo in atteggiamento di sottomissione. Nella parte destra, sulla cima di un colle, stanno un castello, una chiesa e vari edifici circondati da un’alta palizzata: quanto basta far riconoscere con buona probabilità Arcidosso, conquistata dalle milizie senesi guidate, anche in quell’occasione, dal nostro Guidoriccio.
Facile capire, a questo punto, come molti abbiano creduto di ravvisare, nella figura con la spada, proprio Guidoriccio, ritratto, forse proprio da Simone Martini, nel momento in cui, dopo la resa dell’assediata Arcidosso, riceve da un Aldobrandeschi la consegna di Castedelpiano che si sa essere passata nella stessa circostanza sotto il controllo della Repubblica Senese.
Un’interpretazione che si fa ancora più convincente, dopo aver notato che, poco dopo l’esecuzione dell’affresco, si cercò di cancellare ogni traccia dei due personaggi ricoprendoli con uno strato di colore azzurro simile a quello del cielo, e che, prima ancora di compiere quest’operazione, forse nel tentativo di renderlo irriconoscibile, qualcuno sfregiò con un qualche strumento il volto dell’uomo con la spada. Un particolare che diventa un pesante indizio, se non una vera prova della sua identità, ricordando che nel 1333 Guidoriccio, accusato di tradimento, fu espulso da Siena e ogni sua immagine, come voleva la damnatio memoriae consueta in quell’epoca, fu distrutta.
E il Guidoriccio che conosciamo da sempre? Proprio il fatto che nulla sembra essergli accaduto, pur trovandosi in bella vista, immediatamente sopra a quello sfigurato, nella sede stessa del potere della Repubblica Senese, ha indotto molti a pensare che questa sia una ragione in più per dire che il condottiero che vi è ritratto debba essere qualcun altro, sempre che davvero esistesse già, quando Guidoriccio cadde in disgrazia. Di certo non può essere stato dipinto nel 1328, o perlomeno non può essere stata dipinta in quell’anno la fascia che lo incornicia e che, in un cartiglio, riporta questa data, perché, nel suo margine inferiore, si sovrappone all’affresco recentemente scoperto e questo, se davvero rappresenta la conquista di Arcidosso, non poté essere realizzato prima che questa avvenisse nel 1331. 
Non bastassero questi elementi ad affermare le ragioni di chi, a partire da Michael Mallory della New York University che ha dedicato decenni allo studio dell’opera, vuole che il condottiero a cavallo non sia Guidoriccio e, soprattutto, che non fu dipinto da Simone Martini, alcuni anni fa sono comparsi sul mercato antiquario siciliano dei bozzetti che lo rappresentano, recanti l’indicazione dell’anno 1442 ed i nomi di Domenico e Francesco di Andrea. 
Sconosciuti fino a quel momento, perché avevano passato gli ultimi secoli come parte della rilegatura di un libro seicentesco, questi disegni, sono apparsi a molti la prova definitiva tanto della data in cui fu eseguito il Guidoriccio quanto del nome dei suoi autori. Idea tutt’altro che peregrina, ricordando che la grande (e affollatissima, e popolata di cavalli che c’entrano davvero poco con quello del nostro condottiero; ma queste sono considerazioni mie) Battaglia di Poggio Imperiale, che si trova nella stessa sala del mappamondo, a poca distanza dal Guidoriccio, fu dipinta, oltre che da Giovanni di Cristofano Ghini, proprio dallo stesso Francesco di Andrea.
Caso chiuso? Assolutamente no. Gli studiosi che ancora propendono per l’attribuzione tradizionale restano della loro idea. In fondo i bozzetti, se autentici, e pare proprio lo siano, potrebbero essere stati disegnati per mille ragioni; potrebbero essere uno studio, per esempio, che Domenico e Francesco compirono del capolavoro di quello che era, già per loro, un vecchio maestro.
Non cambiano opinione, ovviamente, neppure Moran, Mallory e gli altri per cui l’autore del dipinto non può essere stato Simone Martini: dopo tutto hanno sempre ribadito che il cavaliere sarebbe stato dipinto almeno un secolo dopo la data che figura sulla sua cornice. Già per Federico Zeri, che usò a dire il vero una formula cautelativa, le fortificazioni alla destra del cavallo non potevano esser state dipinte, a causa della loro struttura, prima dell’inizio del cinquecento. Per Moran, addirittura, l’affresco che vediamo oggi sarebbe il risultato di un pesante restauro avvenuto l’altro ieri, nel 1834. Una data sorprendentemente vicina, ma, d’altra parte, seppure con sfumature diverse, tutti i “revisionisti” concordano nell’affermare che il Guidoriccio, più che essere opera di un solo autore, sia il risultato della sedimentazione d’interventi diversi avvenuti nel corso dei secoli.
Questo, che più di una mano abbia contribuito, in tempi diversi, alla realizzazione dell’affresco, è quello che penso anch’io. Credo pure, però, che ancora si possa fare il nome del suo inventore; di chi ha avuto il colpo di genio di porre quel cavaliere là, sotto quel cielo, in mezzo a quel deserto. Credo che sia stato Simone Martini, nel 1330, a concepire il dipinto, dopo aver ricevuto l’incarico di celebrare la conquista di Montemassi, esattamente come vuole la tradizione.
Posso esserne certo? No, ma ricordando la pergamena “dei sedici fiorini”, mi pare l’ipotesi più semplice, specie considerando che non c’è nulla, nel paesaggio, che mi faccia pensare, a prima vista, di non trovarmi di fronte ad un dipinto trecentesco. Sono ingenuo? Che il paesaggio fosse del 1330 era anche quel che pensava Moran, prima di mettersi a caccia degli anacronismi (ne ha trovati una cinquantina) che lo hanno portato a rivedere la propria opinione.
Penso anche che Simone Martini non abbia lavorato da solo, ma che si sia fatto aiutare nella realizzazione dell’opera; è la fortificazione centrale, immediatamente alla sinistra del cavaliere, in particolare, con le sue incongruenze, ad apparirmi degna di un’incisione di Escher, ma non di lui, che rivaleggiava con Giotto quanto a capacità di vedere e rendere le relazioni spaziali. Indagando nella ristretta cerchia delle conoscenze di Simone, in cerca della mano, un po’ meno felice della sua, che poteva aver disegnato quelle torri e quelle mura sconclusionate, sono incappato nel nome di suo cognato, Lippo Memmi, solo per scoprire d’esser stato preceduto, e la cosa mi fa sentire onorato, da Thomas de Wesselow, professore di storia dell’arte del King’s College a Cambridge, che, partendo da una ragionamento simile al mio, e disponendo di esperienza e cultura ben maggiori delle mie, si è addirittura fatto convinto che alla mano di Lippo si debba la totalità dell’opera. Può essere, e certo Simone, magari oberato dagli impegni, potrebbe aver incaricato Lippo, che lavorava con lui e secondo i suoi modi, di realizzare il paesaggio, ma credo anche che per una commessa così importante abbia voluto mantenere il controllo della composizione.
Ho pochi dubbi, e lo dico da artista, non da storico quale non sono, sul fatto che Simone abbia voluto riservare a sé l’esecuzione del cavallo e del suo cavaliere, a centro dell’attenzione degli spettatori oltre che dell’opera, o che, perlomeno abbia voluto fornirne il modello.
Non credo che di quel primo Guidoriccio sopravviva molto, dato che il furore dei senesi, dopo il tradimento del condottiero, si dovrebbe essere abbattuto su questa sua effige non diversamente da quanto fece con quella che compare, con la spada in mano, nell’affresco sottostante. Credo anche, però, che, gli interventi di restauro non siano arrivati a modificare la sagoma del cavaliere e che quella che vediamo oggi sia, perlomeno nel suo contorno, la stessa disegnata a suo tempo da Simone. Non solo; penso anche che il muso, le zampe e la coda del cavallo, su cui la vendetta dei senesi non aveva ragione d’infierire, siano ancora quelli dipinti dalla mano di Simone o di qualcuno che lavorava a stretto contatto con lui. Posso provarlo? No, però posso invitarvi a guardare il cavallo del San Martino che divide il manto col povero che Simone dipinse ad Assisi, tra il 1313 e il 1318 nella prima cappella della basilica inferiore di San Francesco; confrontate i suoi garretti e i suoi zoccoli con quelli del destriero di Guidoriccio: sono identici. Identiche sono anche le code dei due animali, rese crine dopo crine con meticolosa pazienza. Anche i loro musi, il modo del tutto particolare in cui sono rese le froge, quel labbro superiore che sporge quasi come un becco d’anatra, sono del tutto simili, per quanto quello del cavallo del San Martino sia ritratto in un’altra postura e abbia perso quasi del tutto i suoi colori.
Il volto di Guidoriccio, il suo mantello e il manto che copre il cavallo, hanno ben poco del modellato che ci si aspetta da un dipinto di Simone. Le grandi losanghe verdi che ornano i tessuti, e che con quella loro rigidità hanno scandalizzato Zeri (che scrisse, inoltre, di non conoscerne di analoghe in tutta la pittura del trecento), in particolare, credo siano dovute all’opera di qualcuno, chiamato a restaurare il Guidoriccio, che, forse perché impossibilitato a leggerlo compiutamente per i danni che aveva subito, abbia semplificato il disegno che Simone doveva aver dipinto sull’oro che immagino fosse là dove ora c’è il giallo.
I bozzetti “siciliani”, non sono in sé la prova che Francesco e Domenico di Andrea abbiano dipinto il Guidoriccio, ma stabiliscono un termine ante quem per questi interventi di restauro: nel 1442, stando a questi disegni, il cavaliere ed il suo palafreno apparivano già come li vediamo.
Il viso di Guidoriccio, soprattutto, era già quello di oggi. Osservatelo. Vi pare possibile che, come sostengono i “revisionisti”, non sia il ritratto di un particolare condottiero, ma quello di una celebrazione simbolica della potenza senese? A me pare abbia l’aria del pasciuto mercante o dell’accorto banchiere, più che quella dell’eroe. Sarà una metafora, eppure credo proprio che, con quel naso leggermente adunco e il piccolo mento puntuto, abbia avuto un nome ed un cognome e, in mancanza di suggerimenti migliori, continuerò a pensare si chiamasse Guido Riccio.
Non possiamo sapere, invece, nonostante quei bozzetti, chi possa aver sovrapposto le proprie pennellate, più cariche, a quanto restava di quelle raffinate di Simone(ma quel mento, il taglio del sopracciglio, l’occhio e quella bocca seguono ancora il disegno originale; confrontatele con altri suoi profili e ne avrete la conferma), né di quando possa averlo fatto.
Forse furono proprio Francesco e Domenico, nel 1442, e quei bozzetti potrebbero essere uno studio per il restauro che si accingevano a compiere. Forse, e lo ritengo più probabile, fu qualche discepolo di Simone a farlo (secondo l’idea iniziale di Moran, questo sconosciuto seguace del maestro avrebbe dipinto cavaliere e cavallo ex novo, sopra al paesaggio già esistente), quando Guidoriccio, tornato a capo delle milizie senesi, morì, fu seppellito con tutti gli onori e la Repubblica potrebbe aver deciso di commemorarlo facendo restaurare il suo ritratto sfregiato, ricoperto o comunque rovinato nel 1333.Di sicuro il dipinto ha poi subito altri restauri, a cominciare da quello, documentato, del 1834 di cui ho già detto. Un altro intervento, con tutta probabilità, dovrebbe essere stato eseguito nel 1492 quando, per i danni causati dall’umidità, si dovette restaurare l’affresco con L’allegoria del buon governo, dipinto da Ambrogio Lorenzetti nella sala accanto, sull’altra facciata dello stesso muro su cui cavalca Guidoriccio. (E, a proposito di paesaggi trecenteschi, è interessante confrontare quello del nostro affresco con quello offertoci dagli Effetti del cattivo governo in campagna). A questo restauro credo sia dovuto il fatto che i colori di un quarto dell’affresco, quello all’ estrema destra, siano più chiari del resto del dipinto; come se chi eseguì l’intervento avesse sbagliato a valutare di quanto si sarebbe schiarita la propria opera dopo la sua completa asciugatura.
A Francesco e Domenico potrebbe anche essere stato affidato l’incarico d’animare uno sfondo ritenuto troppo vuoto e a loro (o a questi restauri ancora posteriori, se i bozzetti dove il paesaggio ha già tutti i dettagli che vediamo oggi risultassero alla fine falsi) potrebbero essere dovuti quei particolari che, agli occhi di alcuni critici, sarebbero anacronistici. Le vigne nel mezzo del campo senese, per esempio, che illustri esperti di viticultura assicurano essere di un tipo non in uso del trecento, debbono essere state aggiunte in un’epoca in cui cosa fosse una vigna, nel senso militare del termine, fosse ormai dimenticato; la vinea impiegata negli assedi, infatti, aveva ben poco a che vedere con la vite essendo, come ci racconta Vegezio, una tettoia mobile sotto cui gli assedianti si riparavano mentre si avvicinavano alle mura nemiche. Un’aggiunta posteriore, credo pure siano le lunghe palizzate, con quel loro andamento sinuoso che credo risponda esclusivamente a criteri decorativi; sono loro, tra l’altro, passando così vicino ai suoi zoccoli, a dar l’impressione che il cavallo sia stato incollato su resto dell’affresco. Non potrebbe essere il contrario? No. Chi dipinse il cavallo, pittore ad ogni modo di buona mano e che prima di accingersi a dipingere deve aver disegnato dei cartoni, non avrebbe avuto troppe difficoltà a farle sparire o, comunque, a inserire meglio il proprio lavoro nel contesto pre-esistente; danno piuttosto l’aria di un intervento improvvisato, fatto senza valutare l’effetto che avrebbe avuto, una volta levati i ponteggi, sulla lettura dell’intera opera. 
Sempre a questi rimaneggiamenti potrebbero essere dovuti i dettagli aggiunti alla fortificazione in centro all’affresco, forse per accentuarne il carattere militare, che lasciano perplessi gli esperti perché pare non potessero esistere nell’epoca di Guidoriccio. Premesso che non capisco in base a quali documenti Moran asserisca che questo vero e proprio castello debba rappresentare un battifolle, termine che, indicando una fortificazione temporanea in legno e sassi, al più potrebbe applicarsi alla palizzata,a me pare che le sue alte e snelle torri, destinate a sgretolarsi al primo colpo di cannone, facciano piuttosto pensare d’esser state disegnate in un’epoca in cui ancora si sapeva poco o nulla dell’artiglieria e dei suoi effetti; che non neghino, ma affermino l’antichità del dipinto.
Antichità che non è negata neppure da quello che è per me il più evidente degli anacronismi presenti nell’affresco: la cornice di gusto rinascimentale che lo inquadra. Ho pochi dubbi, infatti, che sia anch’essa un'aggiunta posteriore, dipinta, questa sì, forse addirittura durante i restauri ottocenteschi, cosa che basterebbe a spiegare perché si sovrapponga all’affresco sottostante e darebbe ragione dei caratteri, inusitati in un’opera trecentesca, del suo cartiglio. 
Detto tutto questo, insomma, resto convinto che, nonostante almeno tre o quattro artisti, in epoche diverse, abbiano contribuito a realizzarlo nella forma in cui si presenta oggi ai nostri occhi, il Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, rappresenti Guidoriccio da Fogliano e fu concepito con ogni probabilità, sorpresa sorpresa, da Simone Martini.
Ne ho la certezza? Assolutamente no e qualora mi si presentassero prove inconfutabili che l’affresco rappresenti altro e fu dipinto da qualcun altro, prenderei atto della cosa senza il minimo problema. Il dibattito sull’attribuzione del Guidoriccio coinvolge esperti di fama mondiale da tre decenni, e sarei presuntuoso se pensassi che la mia opinione, da artista e spettatore dell’arte, maturata durante un paio di settimane passate a studiare l’opera, valesse quanto la loro; ho osato offrirvela solo perché la discussione tra loro è, appunto, ancora aperta, ma mi guardo bene dal pensare di difenderla ad ogni costo.
Su un'altra questione in cui il mio dissenso nei confronti di chi esclude che Guidoriccio sia stato dipinto da Simone è totale, invece, non c’è verso che cambi opinione. Sto parlando del valore dell’opera. Per loro, che usano l’argomento a sostegno delle proprie tesi, l’affresco è un dipinto meno che mediocre e arrivano al ridicolo quando, magari utilizzando termini spregiativi, ne irridono la composizione. Per me è un capolavoro assoluto, e resterebbe tale se si scoprisse che è stato realizzato a metà ottocento da un Teomondo Scrofalo avvinazzato, proprio per la sua composizione. 
“Un quadro è innanzitutto la stesura di certe quantità di colore sulla tela, prima di quello che rappresenta”, diceva Mondrian, che cito a memoria, e chi decise di porre là quella figura, tra quelle due lunghe strisce ocra e blu, dispose i propri colori in modo geniale, realizzando un’immagine che è in grado di toccare la nostra anima a distanza di secoli, senza che abbiamo bisogno di conoscere nulla di lui o delle sue intenzioni, come succede appunto (e mi rendo conto di quanto il concetto possa essere impopolare, in un’epoca dominata dall’ermeneutica ed in cui il nome dell’artista fa la qualità dell’opera) ai veri capolavori; a tesori come la piccola suonatrice d’arpa cicladica che incontrai al Museo Archeologico Nazionale di Atene, per esempio, e che mi convinse a riprendere in mano gli scalpelli, o alla statuetta Ashanti che ho comprato in Africa per poche lire e che non posso evitare, ogni volta che le passo accanto, di sfiorare con le dita.
Di più: per quanto ho detto il Guidoriccio continuerebbe ad essere un’opera maestra anche se non fosse, dovuto ad alcuno; se fosse un distillato dello spirito senese realizzato da così tante mani nell’arco di così tanti secoli da non avere, in realtà, né un autore né un preciso significato. Se fosse, insomma, frutto della storia e del caso.
“Nell’arte non si cerca, ma si trova”, ripeteva spesso il mio collega Pablo Ruiz detto El Malagueño, più noto col nome di Picasso, che pure di come si facesse arte se ne intendeva. Credo sia vero non solo per gli artisti, ma anche per gli spettatori. Si trova, sempre che si guardi, prima di tutto, con gli occhi.


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