UN RITRATTO DEI NOSTRI TEMPI: KAZIMIR MALEVICH, "QUADRATO NERO"



“I contorni della realtà obiettiva svaniscono gradualmente, mentre ci addentriamo, passo dopo passo, finché tutto quel che amiamo e per cui siamo vissuti svanisce alla vista”, disse Malevich commentando il “Quadrato Nero”. 
Scegliere i brani da ascoltare secondo le proprie sensazioni del momento, quasi a comporre una colonna sonora della propria vita, è cosa comune tra gli appassionati di musica almeno quando l’atteggiamento opposto: quello di usare la musica come medicina dell’anima; d’affidare ad una composizione allegra il compito di risollevare i morali abbattuti o al vigore di un'altra quello infondere energia negli spiriti prostrati.
Quando scelgo il quadro da contemplare, nel poco tempo che, ogni giorno, posso dedicare ai piaceri dell’arte, sono mosso da motivazioni del tutto simili; cerco un ritratto “mio” e del mio mondo oppure , se voglio fuggire dalle preoccupazioni che m’assillano, un’immagine che mi porti lontano nello spazio e nel tempo.
Ieri sera ho dedicato qualche minuto di riflessione al “Quadrato Nero”, uno tra i primi ad esser stati dipinti,  nel 1913, tra i quadri che rappresentano il punto d’arrivo del progressivo allontanamento di Kazimir Malevich dal soggetto. Il titolo, infatti, dà già una completa descrizione dell’opera: di un quadrato nero si tratta, dipinto ad olio, con una stesura assolutamente regolare, compatta, senza alcun visibile colpo di pennello o effetto superficiale,  su di uno sfondo bianco su di una tela quadrata.
Un esito inaspettato per un’artista già maturo (Malevich nacque vicino a Kiev, in Ucraina, nel 1879) e tutto sommato convenzionale, che, dopo aver dipinto nei primi anni della propria carriera  in uno stile uno stile post-impressionista di scarsa originalità, solo nel 1909 si era avvicinato alle avanguardie arrivando al più a realizzare, sotto l’influenza di Goncharova e Larionov più che per conoscenza diretta del pittore francese, una serie di rappresentazioni del mondo contadino, suo personale tentativo di coniugare cubismo e futurismo (noto in Russia grazie alle visite che Martinetti  aveva compito in quel paese) che ricordano da vicino le opere di Fernand Legér.
Il pubblico venne messo a conoscenza di “Quadrato Nero” solo nel dicembre 1915 quando venne esibito, assieme ad altre 38 (o 34 secondo altre fonti) opere simili nella concezione, quadrati e cerchi rossi e neri e loro semplici composizioni, in una mostra  tenutasi a San Pietroburgo intitolata  “0.10 Ultima Mostra Futurista”.
Con il “Suprematismo”, questo fu il nome che l’artista diede all’esibizione dei propri lavori all’interno della grande mostra, intendendo significare la supremazia del “sentimento dell’arte” su ogni altra considerazione,  Malevich compì un salto fino agli estremi confini dell’astrazione e della pittura. Una riduzione programmatica dell’arte al suo assoluto minimo, “al suo Zero”  nelle parole di Malevich, ottenuta “liberandola dall’accumulazione degli oggetti”. Una gruppo di opere incomprensibili al pubblico proprio perché, in realtà, non v’era nulla da comprendere; solo sensazioni d’avvertire. Sentimenti da provare: “Ma un benedetto senso di liberatoria non oggettività mi ha fatto inoltrare nel deserto dove nulla è reale tranne il sentimento... e così il sentimento è diventato la sostanza delle mia vita”.
Malevich, esplorò tutte le possibilità espressive offerte da quella pittura al limite della non pittura; arrivò ad appendere i propri quadri con differenti angolazioni e ad utilizzarli, come fermate di una via crucis, per comporre dei percorsi, abbinandole a suoni e luci, in cui arrivò ad anticipare quelle che oggi chiamiamo installazioni. Nel 1918, con una serie di dipinti bianchi su fondo bianco, arrivò all’ultimo confine: oltre c’era solo la nuda tela e poi il nulla. Si poteva fare altro, Fontana lo dimostrò, ma non stando dentro la pittura.
Per qualche anno ancora Malevich continuò a lavorare utilizzando gli stessi concetti, ma, ed i critici dovrebbero tenerne conto nel considerare le successive tappe della sua carriera, non raggiunse mai più una simile austerità. Nel periodo che va dal 1921 al 1927, cui fanno riferimento le sue prime opere conosciute in occidente, grazie ad una mostra tenutasi a Berlino proprio nel 1927, il pittore russo, pur muovendosi dentro il suprematismo, arricchì la sua tavolozza di mezzi toni e riprese a sperimentare con la consistenza degli impasti e la durezza dei pennelli per ottenere stesure di differente effetto; riscoprì, se non ancora il soggetto e la forma, la pittura.
Nel frattempo era cambiato anche il mondo in cui Malevich dipingeva. Il calderone della Russia pre-rivoluzionaria che, con i suoi fermenti, aveva reso possibile una mostra come quella di cui “Quadrato Nero” era stato il pezzo centrale, si era spento. La Russia Sovietica, al cui interno Malevich si era ritagliato un importante ruolo come presidente o membro di varie istituzioni artistiche e come insegnante d’accademia, non aveva più spazio per un arte tanto raffinatamente, borghesemente, astratta quanto la sua. La restaurazione sovietica, e che in campo artistico fosse restaurazione è indubbio, necessitava un’arte per le masse, di facile comprensione, adatta alla necessità della propaganda.
Malevich, che pure ebbe qualche guaio durante lo stalinismo a causa delle sue amicizia con artisti tedeschi, aderì alla chiamata ad un nuovo realismo sovietico e dal 1928 alla morte, avvenuta nel 1935, tornò a dipingere paesaggi campestri e contadini al lavoro in uno stile non troppo dissimile da quello che era stato suo prima dell’inizio della fase suprematista.
Per molti il suo ritorno alla rappresentazione è un tradimento; il risultato diretto delle pressioni dell’ambiente su grande artista che era, però, anche uomo debole, più legato alle proprie cariche pubbliche che alla propria arte.
Io, ricordando l’evoluzione del suo suprematismo, preferisco pensare che Malevich, come accade a molti di noi, abbia compiuto un lungo viaggio; che abbia avuto la forza di spingersi fino ai confini del mondo e poi, dopo averli esplorati, quella, ancora più grande, di tornarsene a casa.
“I contorni della realtà obiettiva svaniscono gradualmente, mentre ci addentriamo, passo dopo passo, finché tutto quel che amiamo e per cui siamo vissuti svanisce alla vista”, disse Malevich commentando il “Quadrato Nero”.
E’ una sensazione simile a quella che provo, oggi, quando mi trovo a considerare il futuro; è , il “Quadrato Nero”, il preciso ritratto di questi nostri tempi.
Resta la consolazione di sapere che a tutto quel nero si può, magari faticosamente, sfuggire; che nascosta alla nostra speranza dal pessimismo cui è facile abbandonarsi deve esistere, da qualche parte, la via del ritorno.


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