OPERE PER QUESTI GIORNI: IL PRIGIONE DI ADOLFO WILDT



Si è inaugurata sabato 28 gennaio 2012 a Forlì, nello splendido complesso chiostrale di San Domenico, la mostra “L’anima e la forma tra Michelangelo e Klimt”, dedicata ad Adolfo Wildt, un grandissimo della nostra scultura tra Otto e Novecento che, pur rivalutato dalla critica nell’ultimo decennio, soprattutto ad opera di Vittorio Sgarbi, è ancora assai poco noto fuori dalla cerchia degli appassionati di storia dell’arte.
Io stesso, che non ho avuto la fortuna di seguire studi regolari di questa disciplina, e per ragioni biografiche ho conosciuto solo recentemente la manualistica italiana, ho appreso della sua esistenza quando avevo già superato la trentina.
Ricordo perfettamente la profondissima impressione che mi provocò la prima delle sue opere che ebbi la fortuna di vedere, in una collezione privata padovana; si trattava di un altorilievo, “Il Prigione”, dotato di una tale forza, di una tale carica espressiva (non si può dire altrimenti), da lasciare senza fiato.
Si staglia, in uno spesso blocco di marmo, alto una settantina di centimetri e largo mezzo metro, il volto contorto dal dolore di un uomo. Il nostro sguardo, quasi per legge di natura, va subito a cercare il suo: incontra due orbite scavate; due fessure o piuttosto due ferite, incise tra zigomi assurdamente sporgenti, che sembra vogliano lasciar precipitare a terra gli occhi.
Sconvolgente e, come accade nella grande arte, per nulla casuale. “Non si vede in certi occhi vivi, abnormi, deformati dalla malattia, un’espressione tragica che da l’idea di un tormento esasperato? Ebbene io ottengo questo effetto psicologico spasmodico mettendo di fronte il mio prigioniero torturato e straziato due occhi che, essendo alterati nella forma, esagerano l’impronta dello strazio e della tortura”, scriveva infatti lo stesso Wildt, a commento della propria opera.
Solo a fatica riusciamo ad allargare il campo della nostra attenzione. Lasciamo quello sguardo e subito cogliamo un’altra serie di drammatici “tagli”; sono quelli verticali dei tendini del collo, tesi oltre ogni possibilità anatomica. Una scansione di pieni e vuoti a sua volta rotta dalla spessa linea orizzontale della corda che fa di quella maschera, di un dolore che potrebbe non aver nome, quella di un prigioniero.
Le torsioni della canapa, mirabilmente rese, si comportano come “variazioni di un canone”, per usare termini del linguaggio musicale, congiungendosi al lungo pizzetto che spunta dal mento dell’uomo quasi che di questo fossero conseguenza e che ne fossero all’origine; un'invenzione assolutamente mirabile, la fusione tra questi elementi, che, collegando visivamente il collo e il volto, enfatizza l’unità di un’opera dalla eccezionale coerenza formale.
Straordinaria, ci accorgiamo, è anche la qualità della sua esecuzione: se ci turba l’orrore espresso dalla smorfia a cui è ridotta la sua bocca, non possiamo che restare ammirati della resa del turgore di quelle labbra; non possiamo che restare stupefatti di fronte alla perizia della mano che ha cesellato nel marmo, uno dopo l’altro, i denti che compongono quel ghigno. Una cura dei dettagli che Wildt ha forse appreso nella bottega dell’orefice presso in cui, costretto a cercare d’aiutare la propria poverissima famiglia, arrivata chissà come a Milano dalla Svizzera, iniziò a lavorare già a nove anni.
Frutto della tradizione italiana, quasi suo punto d’arrivo estremo, oltre che testimonianza della straordinaria sensibilità di Wildt per il materiale, è la stupefacente pelle del Prigione e di tutte le altre sue statue: è sfruttando tecniche secolari, apprese nell’atelier di Giuseppe Grandi, uno dei numi tutelari della nostra scultura della seconda metà dell’Ottocento dove entra come apprendista ad undici anni, e poi in quello di Federico Villa, che il marmo è levigato, con cura ed amore infiniti, fino ad ottenere incredibili effetti di opalescenza, quasi di trasparenza, come è dato vedere, tra i moderni, solo in alcune opere di Rodin.
E’ questa magia, di cui era già perfettamente padrone a 18 anni, che valse a Wildt l’attenzione dei collezionisti (uno di loro, il prussiano Franz Rose, lo mise sotto contratto per diciotto anni, tra il 1884 e il 1912) e gli permise di mettere a punto la propria cifra lontano dalle ansie del mercato.
“Il Prigione”, scolpito nel 1915, mentre infuriava la Prima Guerra Mondiale, è la sintesi di questi decenni di lavoro, come pure di studio e di viaggi in tutta Europa: dimostra come il garzone Wildt sia cresciuto fino a farsi artista colto e, con buona pace di chi non sa leggere la scultura, aggiornatissimo.
E’ giustissimo il titolo della mostra forlivese: Wildt (basta appunto pensare a quale sia il Prigione più famoso della nostra storia dell’arte) ha evidentemente meditato la lezione di Michelangelo e il suo amore per la linea lo può certo far accostare a Klimt. Resta però certo che conosca tutta la grande arte, specie mitteleuropea., del suo periodo e che non possa essere catalogato semplicemente come artista “Liberty”, come si ostinano a fare alcuni: come non accomunare alcuni suoi volti, soprattutto quelli delle sue opere più tarde (in questo momento penso alla Madonna della “Concezione” del 1921 o alla “Testa della Madre” del ’22), a certi di Barlach, il gigante dell’espressionismo tedesco in scultura.
E quale miglior manifesto de “il Prigione” per definire una via italiana all’espressionismo? Un espressionismo assolutamente programmatico; basta leggere quel che della propria opera scrive lo stesso scultore: “Io ho il diritto di contorcere, di alterare, la foggia tradizionale di un elemento, di un organo, di un membro, se questa alterazione darà al mio lavoro un coefficiente di espressione più acuto e più forte”.
Le tensioni che Michelangelo trattiene dentro i volumi dei propri corpi, esplodono alla superficie nell’opera di Wildt; la forma non è più prigione dell’anima, ma, con le proprie deformazioni, ne diviene specchio. Lineamenti che si fanno esasperati; a cominciare da quelli dell’autoritratto con cui ha anticipato molti dei risultati de “il Prigione”: la sconvolgente “Maschera del dolore”, scolpita, nel 1908, dopo una profonda crisi esistenziale,
Un’opera che però conosco solo dalle riproduzioni; per incontrarla, farò quanto mi è possibile, da qui al 24 giugno, giorno di chiusura della mostra, per andare a Forlì, anche se per farlo dovrò superare il timore, come accade a tutti con tutti i capolavori di qualunque arte, di ritrovarvi qualcosa di me e tanto di questi nostri tempi.


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