Mark Rothko, assieme a Jackson Pollock, è il più celebre espressionista astratto americano.
Una frase su cui pochi troverebbero da obiettare. Tra questi, però, quasi certamente proprio lui, Marcus Yakovlevich Rothkowitz, nato nel 1903 a Dvinsk, cittadina allora nel governatorato di Vitebsk e parte dell'Impero Russo, che ora si chiama Daugavpils e si trova in Lettonia. Americano, quindi, ma solo d'adozione,
e sempre solo fino a un certo punto, nonostante avesse solo 10 anni
quando transitò in compagnia della madre da Ellis Island, in viaggio per
raggiungere il padre, emigrato nel perduto Oregon già da qualche anno.
L'inglese incominciò ad impararlo solo allora, troppo tardi, perché non
gli restasse un'ombra d'accento. L'America lo accolse, ma non fino a farlo sentire davvero a casa propria.
Gli offrì una borsa di studio per la prestigiosa università di Yale, ma
proprio là, dove forma le proprie élite, gli fece anche provare il gelo
del razzismo. Troppo ebreo, Rhotkowitz, che forse pensava ancora in
yiddish o in russo, per quell'ambiente; forse, appunto, troppo poco americano.Tornando a quella frase iniziale, Rothko avrebbe avuto poco da ridire sulla propria celebrità. Aveva perfetta coscienza della propria grandezza d'artista e una visione eroica, anzi messianica, della propria arte. Non la considerava astratta però; tutt'altro. Lo ribadì anche al poeta e scrittore Selden Rodman, nel 1957: “Intendiamoci una volta per tutte: io non sono un astrattista”. I suoi dipinti, sostenne poi ripetutamente, non prescindevano da un soggetto; semplicemente ne avevano uno metafisico, trascendente. Che poi qualcuno, come il critico Peter Selz, in un articolo del 1961, arrivi a scorgervi delle strette parentele con l'opera del Beato Angelico (dalla cui scansione degli spazi, luminosità e spiritualità Rothko era davvero affascinato), forse ha poco che vedere con quel che il pittore mise sulle sue tele e molto più con la dimostrazione che la critica è una forma d'arte, e delle più creative, ma è tutto un altro discorso. Un giudizio, ad ogni modo, che implicitamente nega l'etichetta di espressionista frettolosamente appiccicata alle opere della maturità di Rhotko.
Anzi, se non si dà a questo termine un significato prettamente etimologico, non v'è nulla di espressionista, in quelle grandi, a volte enormi, campiture rettangolari che oggi riconosciamo tutti, anche se per l'arte moderna abbiamo poco o nessun interesse. Esprimono, ma non urlano. Sussurrano alle nostre anime, ma, e il rifermento rinascimentale in questo senso non cade a sproposito, lo fanno con la voce della ragione: sono state calcolate, calibrate. E dipinte in modo sublime. Ortega y Gassett nel suo “La deshumanización del arte”, del 1925, imputò agli artisti moderni di rivolgersi, in realtà, ad un pubblico di altri artisti. Un'affermazione che, almeno in parte, vale anche per chi dipingeva prima del '900 e certamente vale per Rhotko: se ce n'è uno, un pittore per pittori. Dipinge per tutti, intendiamoci, ma bisogna aver provato a tenere i pennelli in mano per capire la raffinatezza delle sue velature e la ricchezza di modulazioni dei suoi fondi. E bisogna mettersi di fronte agli originali.
Per fortuna la Work Progress Administation, la stessa agenzia statale che in quegli anni aiuta Pollock e De Kooning, gli dà un lavoro. Sul finire di quel periodo, nel 1938, si decide a diventare cittadino americano e due anni dopo semplifica il proprio cognome fino a farlo diventare quel che conosciamo. Cambia anche la sua arte. Lo influenzano quel che vede nelle gallerie della metropoli, dagli espressionisti tedeschi a Matisse, e gli incontri con Ernst, Dalì, Mirò e gli altri artisti in fuga dalla guerra europea. Legge molto. Nietsche, Freud e James Frazier, soprattutto. Scrive pure. Nel 1940, durante una lunga vacanza dalla pittura, inizia a lavorare a un libro che non completerà mai: “The Artist’s Reality: Philosophies of Art”. “Il dipinto è la manifestazione corporea della nozione che l'artista ha della realtà”, vi si legge “che si realizzata nella rappresentazione sulla tela di oggetti o qualità, riconoscibili o meno, riferibili alla sua esperienza direttamente o attraverso il ragionamento”. Un lavorio intellettuale che dapprima lo porta ad avvicinarsi al surrealismo e poi a praticare un'astrazione biomorfa: un'arte che vorrebbe recupera il mito e il sogno, rappresentazioni simboliche di quanto vi è di più umanamente profondo o, se volete trascendente.
E' un lungo periodo di transizione. La fine della guerra è accompagnata dalla rivelazione di tutto l'orrore dell'Olocausto e dal coscienza che l'umanità, con la bomba atomica, possiede lo strumento della propria autodistruzione. Tutto questo e la morte della madre, vissuta come una tragedia, lo spingono ad andare oltre. A liberarsi dalle forme, se non quella elementare del rettangolo, per continuare, dalla fine del 1948, ad esprimere l'inesprimibile con il solo colore. Una decisione che spero di aver sommariamente inquadrato, ma sui credo sia presuntuoso elucubrare oltre. Devo, piuttosto, giustificare la mia scelta. Dirvi come mai, nel grigiore di questi giorni, non vi ho proposto uno di quei dipinti dai colori radiosi, a volte squillanti, che hanno fatto di Rothko uno dei pittori più apprezzati e pagati dai collezionisti. Perché è in questo fantasma acromo di quelle opere, in questa riduzione al minimo del suo linguaggio, in cui molti non vedono altro che il definitivo inaridirsi della sua vena poetica, che sta il punto d'arrivo del suo percorso artistico: del suo viaggio dentro di sé ed ai confini della pittura. La stessa esplorazione che compirono, fatte salve le differenti sensibilità e culture, almeno altri due giganti del secolo scorso: Kazimir Malevich e Lucio Fontana.
Il primo giunse al limite, con i suoi quadrati bianchi e neri, quindi se ne tornò indietro. Il secondo arrivò fin là, squarciò la tela e cercò di andare oltre. Mark Rothko, nel 1970, pochi mesi dopo aver completato questo dipinto, si tagliò le vene e restò a contemplare l'abisso.
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