IL RATTO D'EUROPA: UN'OPERA PER QUESTI GIORNI

Su una spiaggia della natia Fenicia amava andare a fare il bagno, e a cogliere fiori con le sue ancelle, la bellissima principessa Europa, sorella di Cadmo e, come lui, figlia di re Agenore e della sua sposa, la naiade Telefassa. Un giorno Zeus, osservando la terra dall’alto dei cieli, la vide e se ne innamorò. Volendo andare da lei, ma non volendo spaventarla, il dio assunse la forma di un toro bianco e si pose a pascolare placidamente nel prato al limitare della spiaggia. Tanto placidamente che le ancelle, convinte della sua mansuetudine, gli si avvicinarono e presero ad accarezzarlo. Europa, più coraggiosa ancora, osò salirgli in groppa. Il toro, immediatamente schizzò via, mentre la principessa non poté fare altro che restargli aggrappata. Il magnifico animale corse a gran balzi per ore fino ad arrivare, con Europa sempre in groppa, all’isola di Creta. Lì, recuperate le originali sembianze, Zeus dichiarò il suo amore alla bella, si unì a lei e da loro nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedonte.
Questo è il mito del ratto d’Europa, soggetto di infinte opere dell’arte occidentale; dai vasi greci, ai mosaici romani ed alle tele di Fernando Botero. Tale tema ebbe particolare fortuna soprattutto verso la fine del rinascimento e durante l’età barocca, fino ad arrivare a tutto il settecento e oltre, e non è da negare che questo fosse anche dovuto al fatto che forniva l’occasione (come quelli biblici di Susanna ed i vecchioni e Betsabea al bagno) di rappresentare un corpo di donna poco o nulla vestito.
Di queste infinite interpretazioni (solo per restare in ambito veneziano, il mito d’Europa è stato poi dipinto anche da Veronese e Tiepolo) particolarmente importante, per l’impressione che fece ai suoi contemporanei e l’influenza che ebbe su generazioni di artisti, è quella che diede Tiziano in un’opera di cui, tra l’altro, Rubens eseguì una celebre copia: la grande tela, di circa due metri per due, che ritrae Europa che sopra il toro passa il mare, per usare la descrizione che ne dà il Vasari.
Iniziato nel 1559, secondo quanto scrive lo stesso Tiziano in una sua lettera a Filippo II (una relazione, quella tra il re di Spagna, che arrivò a possedere trenta sue opere, ed il pittore, che oggi diremmo d’amicizia), e spedita a Madrid nel 1562, ultima delle poesie di soggetto mitologico e impregnate d’erotismo che realizzò per il sovrano nell’arco un decennio, Il ratto d’Europa, che l’artista, tra i più longevi oltre che tra i più grandi, completò dunque quando gia aveva più di settant’anni, è una vera e propria sintesi della sua arte, oltre che uno straordinario esempio delle passioni, letterarie, archeologiche e d’altro tipo, della sua epoca.
Discutono appassionatamente, iconografi ed altri studiosi, per stabilire quale sia stata la fonte letteraria a cui attinse Tiziano. Molti propendono per Ovidio e le sue Metamorfosi; altri per le Odi di Orazio. Per alcuni l’artista sarebbe giunto a conoscenza del mito d’Europa attraverso la parafrasi di Ovidio che Poliziano offre nelle sue Stanze; per altri ancora, sarebbe greca, alessandrina, la fonte: Achille Stazio, scrittore del II secolo, che descrive un quadro sul tema all’inizio di Leucippe e Clitofonte, l’unico suo romanzo sopravvissuto, di cui proprio un amico del pittore, Ludovico Dolce, aveva pubblicato una parziale traduzione italiana nel 1546.
Sono questioni certo importanti, ma in cui non ho la minima competenza per addentrarmi; quel che è certo è che l’Europa di Tiziano sta attraversando un’esperienza estrema; ad un tempo terribile e sublime. Sono le bianche carni del suo corpo, che risalgono da destra a sinistra la diagonale del quadro, in una composizione drammaticamente asimmetrica, già anticipatrice del barocco, quel che prima attira l’occhio dello spettatore.Giace sulla schiena, Europa, in groppa al toro; appare impotente, le sue vesti sono scomposte, appaiono quasi come strappate: è una vittima e siamo di fronte ad una scena di violenza. A un ratto, appunto. C’è dell’altro però.
Ci sono quegli amorini svolazzanti (qualcuno li vorrebbe collegare a quelli della Galatea di Raffaello) nel turchese, là in alto, sulla destra del quadro. Non servono solo ad equilibrare la massa, altrimenti preponderante, d’Europa; lo sguardo della bella, visivamente enfatizzato dall’ombra del braccio che ne attraversa il volto, si volge verso di loro per chiedere aiuto o, forse, nel timore e speranza che scocchino i loro dardi. Ci sono poi proprio gli occhi d’Europa, stravolti da quello che potrebbe non essere solo terrore; e di nuovo ci sono quelle sue membra nude, di cui lei pare aver perso il controllo, e c’è piacere che, anche se certo non siamo sadici, la loro vista offre a noi come deve averla offerta al re ed ai suoi ospiti. E’anche una scena di rapimento nell’altro senso che il termine ha nella nostra lingua; di estasi. Estasi d’amore (e un altro amorino, a cavallo di un mostruoso pesce, completa la diagonale chiara tracciata dal corpo d’Europa) e trasfigurazione provocata dall’incontro con il divino. Rapimento dunque non troppo differente da quello, celeberrimo, che Bernini avrebbe scolpito un secolo dopo, certo con un'altra sensibilità, certo col tono diverso che gli imponeva il diverso soggetto, nel corpo e sul volto della sua santa Teresa.
Magistrale nella resa di temi emotivi così diversi, addirittura opposti, puro terrore e sublime piacere, lotta ed abbandono, violenza ed amore, colto nel soggetto e nella trattazione che ne fa, il dipinto è pure coltissimo nelle sue citazioni visive: la posizione del corpo d’Europa, per esempio, è la stessa della Dirce del Toro Farnese, gruppo marmoreo d’età ellenistica che allora era stato appena ritrovato (nel 1545), mentre dalla stessa statua, ma dalla figura di Anfione, proviene la presa della fanciulla sulle corna dell’animale.
Tutto questo, però, non dà completa ragione dell’importanza straordinaria del Ratto d’Europa nella storia dell’arte; sarebbe moltissimo eppure sarebbe nulla, se non ci fosse il colore.
Innanzitutto le sue tonalità. Tiziano, è qui all’apice della propria arte, anziano, ma ancora capace di ritrovarsi nei pennelli scintille della luce dorata dell’Assunta; il ricordo di quell’arancio straordinario (per me uno dei colori più belli della storia della pittura) che mozza il fiato a chiunque metta piede dentro Santa Maria Gloriosa dei Frari, a Venezia. In quel Tiziano il colore, per quanto intenso e luminoso, come d’altra parte voleva la tradizione veneziana, a partire dai bizantini mosaici di San Marco, era però ancora seguace del disegno; era usato in maniera diversa da quella di Gentile Bellini, che aveva avviato Tiziano alla pittura, ma non troppo da quella di Giovanni Bellini, presso la cui bottega si era trasferito dopo la morte del primo maestro. D’altra parte proprio con Giovanni, che già s’era allontanato dai contorni netti per affidare alle campiture cromatiche il compito di distinguere le figure, ha inizio quella scuola veneta, che ha fondamento sul colore, che sempre l’imprescindibile Vasari oppone al modo toscano del primato del disegno.
Nel Ratto d’Europa, come in tutta la pittura della sua tarda maturità, Tiziano va oltre; lì è il solo colore a definire i personaggi, a svelare e celare, a scandire i piani e costruire lo spazio, fino ad arrivare ad avere in valore in sé, ad essere pittura per la pittura.
Si deve guardare anche al paesaggio sullo sfondo, alle figure delle ancelle sulla spiaggia, rese con pochi guizzanti colpi di pennello, alle montagne immerse nella bruma che sfumano nell’orizzonte, per comprendere appieno cosa faccia del Ratto d’Europa un capolavoro; un’opera che non solo è sintesi dell’arte fino al momento della sua creazione, ma ponte verso il futuro, verso quel che sarà l’arte dei secoli a venire.
 C’è il ricordo di Leonardo, arrivato in laguna nel 1500 con il suo sfumato e la sua prospettiva aerea , in quelle rocce, ma anche ci sono già gli effetti di luminosi e atmosferici che saranno degli impressionisti. Anche questo non sorge dal nulla, intendiamoci. L’attenzione alla resa del paesaggio era già della pittura nordica che Tiziano ammirava (aprì la propria bottega a numerosi artisti tedeschi, ci informa sempre Vasari, proprio per conoscere il mestiere com’era praticato oltralpe; conobbe e frequentò Dürer durante il suo soggiorno veneziano nel 1507), mentre una pittura fondata sulla sovrapposizione di strati di colore, in cui sono i toni a definire le forme e dove i soggetti si fondono naturalmente con lo sfondo, è già di Giorgione, che perlomeno dal 1508 e fino al 1510, anno in cui morì di pestilenza, lavorò proprio con Tiziano in un rapporto che la critica nostra contemporanea tende a considerare paritario.
Quel che è rivoluzionario, in Tiziano maturo, è il modo in cui il colore è applicato. Nella sua pittura di macchia, le pennellate, lasciate evidenti, interagiscono tra loro e con la tela non solo per modellare le forme, ma per creare un mondo sensoriale nuovo, capace di colpire lo spettatore tanto a livello fisico quanto psicologico. Sono segni, diremmo oggi, e sono altro: il loro spessore impone, quasi, di toccarle; il loro tracciato, memoria visibile del gesto dell’artista (sì, il gestuale è già li; il più astratto degli espressionismi, pure), rende palpabile, nel più letterale dei sensi, la drammaticità del momento che l’opera vuole rappresentare.
Tiziano è il precursore sulla strada che poi seguiranno anche Rembrandt, El Greco e Goya; altri artisti le cui pennellate s’allargano negli anni, si fanno più cariche e più libere, in uno sfaldarsi dei contorni, in un disinteresse per i minuti dettagli, che è profetica riduzione della pittura alla propria essenza. Con lui, amico del re, il pittore diventa intellettuale, riconosciuto come tale a pieno titolo. Nelle sue opere la pittura si fa maggiorenne; diventa arte completa in sé, capace di esprimere l’ineffabile senza aiuto d’altro. Diventa, davvero, linguaggio.
Un dipinto straordinario, dunque, Il ratto d’Europa, in cui il mito fondante della nostra cultura, come ci è stato narrato dai greci, tramandato dai romani e riscoperto dagli umanisti, è rappresentato da uno dei più grandi pittori del rinascimento italiano. Per vederlo bisogna però andare in un altro continente; è ora conservato presso l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Forse anche in questo, mentre l’Europa pare essere diventata solo una questione di convenienze mercantili ed europeo sembra qualificare solo un torneo di calcio, c’è una lezione.

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