venerdì 6 marzo 2015

GIORGIO MORANDI, NATURA MORTA

Un istante d'eternità.


Giorgio Morandi, Natura morta, 1953. Olio su tela di 45,5 x 35,5 cm. Mamiano di Traversetolo (Pr), Fondazione Magnani Rocca


Sarà per quei portici-cosce di mamma? Per il colore caldo dei suoi mattoni e coppi? Per i tortellini? Per il modo di fare, scanzonato ma senza volgarità, dei suoi abitanti? Per altre vociferate specialità cittadine? 

Non lo so. Di sicuro, nel paese dai mille campanili, e dove ognuno è visceralmente attaccato al proprio, Bologna, col seno sul piano padano e il culo sui colli, è l’unica città amata da tutti. Sotto sotto, anche dai modenesi.  Ed l’unica di cui quasi tutti, anche quelli che non l’hanno mai visitata, sappiano citare due indirizzi. Chi abbia suppergiù la mia età e ascolti della musica, anche solo all’autoradio mentre guida, sa che in via Paolo Fabbri 43 abitava uno dei nostri poeti generazionali, autore anche della canzone che ho citato. Quasi tutti quelli che hanno qualche interesse per l’arte, ricordano poi via Fondazza 36.
Lì, un po’ più vicino al centro rispetto a via Paolo Fabbri, con appunto i portici e non i tigli a fare ombra nell’afa agostana, c’è la casa dove ha vissuto e lavorato Giorgio Morandi. C’è, anzi, tutto il mondo, tutto l’universo, di uno dei pittori più grandi del ‘900, nostro e non solo.
Da quelle mura, infatti, Morandi non usciva praticamente mai. Al massimo si concedeva brevi passeggiate nelle vicinanze. E non cercava altrove neppure i soggetti dei propri quadri. Vasi, barattoli e bottiglie; quel che sta sulla superficie di un tavolino. Rari scorci di quel che si vede da quelle finestre. Un asceta della pittura? Come Magritte, che pure non usciva mai dal proprio studio, qualcuno capace di sviluppare un sistema formale perfettamente auto-contenuto. Meglio ancora, qualcuno capace di far poesia osservando qualche suppellettile; come Montale, e il paragone con lui tornerà,  la faceva guardando a quel  muro d’orto, rovente in un meriggiare pallido e assorto.
Un uomo tranquillo, dunque. Alto, con il viso lungo e le braccia smisurate. Dalle foto, pare somigliare un po’ a Fenoglio; un altro che aveva trovato un linguaggio tutto suo, tra l’Inghilterra di Cromwell e le Langhe. Nessuna somiglianza nelle loro biografie, però, tranne la comune riservatezza. Nessun dramma pare sfiori la vita di Morandi. Il trasloco assieme alla famiglia a quell’indirizzo, avvenuto nel 1910, quando ha vent’anni e da tre frequenta l’Accademia di Belle Arti,  è quanto di più rimarchevole gli sia accaduto, o quasi. In una di quelle stanze piazza il proprio cavalletto e resta lì, a dipingere, mentre la Storia (quella terribile con la esse maiuscola) passa altrove. Arriva la prima Guerra Mondiale. Lui è richiamato, ma, subito congedato in seguito ad una grave malattia, la passa con i pennelli in mano. Arriva il fascismo. Morandi, che ha raggiunto una certa fama (Riccardo Bacchelli gli dedica un primo articolo nel 1918), dipinge le nature morte che sono già diventate il suo tema quasi esclusivo. Cade il regime. Dopo altri due terribili anni, arrivano libertà e democrazia. In tutto questo tempo, Morandi non si stacca dal cavalletto. Dipinge i suoi barattoli, i suoi vasi e le sue bottiglie. La sua non è “arte impegnata”. E’ un “intellettuale chiuso nella sua torre d’avorio”. Peggio: è “un piccolo borghese che celebra valori piccolo borghesi”. Sono queste le accuse da cui deve difendersi. Le stesse suppergiù che vengono rivolte a Montale. Non avendo nulla da farsi perdonare, potrebbero rispondere entrambi, non avendo mai collaborato attivamente con il regime, non hanno nessun bisogno di fare professioni di antifascismo, come tanti che, dopo aver passato il ventennio in orbace e camicia nera, corrono ad indossarne di altri colori. Tacciono, invece. Montale, pubblica una nuova edizione delle Occasioni e si scrive articoli di cultura. Morandi, certo, continua e dipingere. E sempre gli stessi barattoli. Solo nel 1976, il poeta, scriverà che oggetto della propria opera era la condizione umana, non un dato avvenimento storico, ma che questo non significava estraniarsi dal mondo; solo “coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio”. Parole, quelle tra virgolette, che sarebbero state benissimo anche in bocca a Morandi, pittore che mirava all’essenziale e all’eterno; che sceglieva di dipingere forme tanto semplici da essere senza tempo. Sì, proprio come negli stessi anni, ma con sensibilità ovviamente diversa, stava facendo Mondrian. Le ragioni, di una tale pittura? Ce le fornisce ancora Montale, e in una sola frase. Nel 1966, mentre l’intellighenzia nazionale si precipitava a professare il proprio impegno, in Auto da fé il poeta  ebbe il coraggio di scrivere che fare poesia (e quindi arte) era, in sé, “un'ontologia in cui la vita intellettuale e la vita morale coincidono indissolubilmente”. 
Bologna, non sarà l’ombelico di tutto, ma non è neppure una sperduta isola del Pacifico. E Morandi, che pura lavora in solitudine, praticando un’arte tanto rigosa da apparire lontana dal mondo quanto un mosaico bizantino, non può sfuggire al proprio tempo. Ovvio che debba confrontarsi con gli ismi del primo ‘900. La frequentazione di Ardengo Soffici,  lo avvicina al Futurismo. Il tempo di capire di cosa si tratti, e quanto diverso sia dalla sua concezione dell’arte, con quel suo voler farla finita “coi Ritrattisti, cogli Internisti, coi …” prima di allontanarsene. Più duratura la sua stagione metafisica. Comincia mentre ancora infuria la Grande Guerra, quando incontra De Chirico e Carrà, e non finisce mai del tutto. Certo, la sua pittura è pienamente metafisica solo per un breve periodo; fino al ‘19, proprio quando con Carrà e De Chirico entra nel gruppo che si riferisce alla rivista Valori Plastici. In quegli anni, però, è il più metafisico tra tutti. Quando ancora cercava una propria via al Futurismo, attraverso le riproduzioni dei lavori di Braque e Picasso e leggendo Du Cubisme di Glaizes e Metzinger, ha conosciuto il Cubismo. Ne ha fatto propri alcuni elementi e li usa per costruire immagini squisitamente mentali; architetture visive in cui i soggetti appaiono ancor  più distanti dal quotidiano di quelli che popolano le tele di Carrà o De Chirico. Un’arte troppo astratta per soddisfarlo, ad ogni modo, e che abbandonerà per tornare alle sue nature morte. Da allora, però,  i suoi quadri sono ineffabilmente diversi. Osservandoli, si fa in noi più netta le sensazione che quegli oggetti, pur così semplici, non appartengano davvero al nostro mondo; che esistano piuttosto in una dimensione tutta loro. Meta-fisica nel più etimologico dei sensi.
Guardiamo questo quadro. E’ del 1953 e appartiene alla piena maturità di Morandi. L’ho scelto per questo e per la sua essenzialità. Tre bottiglie davanti ad una scatola e a dei barattoli. Di simili, ne abbiamo anche in casa, ma non ci sfiora l’idea di trovarci di fronte ad uno “scorcio di realtà”. Lì, su quella tela, sono rappresentati uno spazio ed un tempo, soprattutto, diversi dagli ordinari. Non un astratto spazio della ragione, però, come nelle sue tele più metafisiche; piuttosto uno spazio che la ragione filtra, regola. Simile a quello intuito da Paolo Uccello, che Morandi amava; lo stesso dentro cui Cézanne celebrava, per usare le parole con cui Rilke ne descrisse l’arte, la “cosalità delle cose”.
Morandi conosce l’opera di Cézanne nel 1910, grazie ad un articolo che Soffici pubblica sulla Voce. L’avrebbe poi studiata a fondo e ne avrebbe sempre ricordato le lezioni. Quelle bottiglie e quelle scatola, per cominciare, esistono davvero. Basta andare in via Fondazza 36, dove oggi sono esposte le cose di Morandi, per ritrovarle. Cézanne  non dipingeva soggetti di fantasia. Cercava di restituirci sulla tela gli oggetti, delle mele come la montagna Saint-Victorie, in tutta la loro solidità; voleva che le cose in sé arrivassero, per citare ancora Rilke, “ad essere belle, a significare tutto il mondo e tutto lo splendore”. Morandi fa lo stesso. Ha un totale, cezanniano, rispetto per i suoi soggetti. Le bottiglie che sulle sue tele ci appaiono bianche, sono così anche nella realtà; se nate trasparenti, ne ha coperto il vetro con un velo di bianco perché lo diventassero. Dove la sua sensibilità di artista interviene è, appunto, nella scelta di quelle cose e nella loro  disposizione, che può studiare per ore, e a volte per giorni. Medita a lungo anche sul punto di vista più opportuno. Poi, però, lavora in fretta. Cerca di realizzare i suoi quadri in una sola seduta. Dipinge “a corpo”, senza ovviamente usare velature. Una pittura in presa diretta, che non ammette correzioni. Se sbaglia, se non è soddisfatto, deve grattare via il colore dalla tela e ricominciare daccapo. Le sue pennellate sono tutte visibili; anche in questo quadro le possiamo contare una ad una. Nel 1911, in uno dei suoi rari viaggi, si reca Roma e vede un’esposizione di Monet. Ha imparato da lui quanto possano essere espressivo il segno dei pennelli? Di sicuro, oltre a testimoniare il suo lavoro (anche Gestuale; Morandi è proprio tutto), quelle pennellate, che pure modellano cezannianamente (orrendo, ma ci vuole) gli oggetti, animano le campiture sottraendone i piani alla geometria per consegnarli alla poesia. Ci ricordano, là dove si fanno incerte, come in quella riga orizzontale, l’umanità del pittore e la nostra; fanno della superficie pittorica uno spazio sì diverso, ma pure sempre terreno.
Pennellate che non urlano, però; che non sono drammaticamente espressioniste.
Nulla disturba la coerenza formale delle opere di Morandi, monolitica anche grazie al più rigoroso (certo, cezanniano) controllo dei toni. Grigi, ocra, bianchi appena sporcati. Colori che paiono provenire da un affresco dei trecenteschi che ha tanto studiato, sfumati, a volte quasi spappolati, da una luce tutta sua. La luce che in Piero ordina il mondo, ammorbidita dall’atmosfera bolognese? Sì, ma come in Cézanne una luce reale, non solo mentale. In un angolo dello studio, Morandi ha appeso un elastico circolare; sa che quando è circolare anche l’ombra che proietta sulla parete, il sole è allo Zenith: il momento giusto per abbozzare quadri come questo, dove non ci sono ombre visibili. E sa che altri momenti sono invece più propizi per ottenere altri effetti, per avere ombre che incidono o sfumano, che rivelano o nascondono. Ombre soffici che, nella loro presenza o assenza, scandiscono il tempo dei suoi dipinti? No. Non più di quanto il sorriso della Gioconda possa essere ridotto ad una questione di chiaroscuri. E altrettanto misterioso è il tempo in cui stanno le cose di Morandi. Rappreso, sospeso. Quanti aggettivi per qualificarlo. Osserviamo ancora questo quadro. Per quanto potrebbero stare così, quelle bottiglie? Quanto possono durare quella luce e colori? Sì, per sempre. Su quella piccola tela c’è un istante di eternità. Per arte. Per magia. Per poesia. Per tutto quello che vorrebbe farci tornare una sera in Piazza Grande, anche se non ci siamo andati mai.


P.S. A Roma, nel Complesso del Vittoriano, resterà aperta fino al 21 giugno la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”. Inaugurata il 28 febbraio, con oltre cento dipinti ed una cinquantina di opere grafiche ripercorre l’intera carriera dell’artista. Curata da Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Longhi, offre anche l’occasione, quasi unica, di ammirare le matrici di alcune incisioni.

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