venerdì 6 febbraio 2015

VINCENT VAN GOGH, CAMPO DI GRANO CON VOLO DI CORVI

Lo dipinse pochi giorni prima di spararsi al petto.  Oggi lo veneriamo come un capolavoro di uno dei più grandi pittori "a pennello carico" della storia dell'Arte.


Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890. Olio su tela di 50,3 x 103 cm
Museo Van Gogh, Amsterdam



Me ne restavo lì, incapace di lasciare quel quadro, l’ultimo dell’esposizione. Era la mia prima volta ad Amsterdam ed ero solo un ragazzo, con più sogni in testa che soldi nelle tasche dei jeans. Un ragazzo come i tanti che avevano fatto con me la coda per entrare nel museo. 


Una fila interminabile. Era luglio, ed eravamo arrivati da tutta Europa, ma c’erano anche americani, giapponesi e gente che non si capiva da che angolo del mondo potesse provenire.  Eravamo in quella città per di tutto e di più, come si diceva allora, anche se in fondo sapevamo che ce ne saremmo poi tornati a casa con solo il ricordo di qualche risata e, magari, con un po’ di mal di testa.  Tra noi erano pochi gli amanti dell’arte. Il tempo per “andare a vedere Van Gogh”, però, lo trovavamo tutti: non si completa un pellegrinaggio senza una visita, magari frettolosa, alle sacre reliquie. 
Di fretta, io non ne avevo avuta. Avevo passato nel museo tutta la giornata.  E se ancora non avevo il mal di testa, provavo  avevo un senso di vertigine.  Sindrome di Stendhal?  Forse.  Avevo visto, uno dopo l’altro, una dozzina almeno di quelli che per me erano, e sono, dei capolavori assoluti. Quadri che non riuscivo a levarmi dagli occhi, a cancellare dalla retina. E adesso c’era questo paesaggio sconvolgente. Lo conoscevo già. Lo conosciamo tutti. Ma … ma era li, davanti a me, con quelle pennellate furenti, strazianti. “L’ultimo quadro che ha dipinto”, mi dissi. Ora so che forse è solo uno tra gli ultimi, ma poco importa.  Non sapevo neppure che, a  proposito di questo e degli   altri  paesaggi, avesse scritto alla cognata Johanna di “aver detto con quelle tele quanto la campagna  sia salutare per me e mi rinvigorisca”. Una lettera, apparentemente ottimista, di cui sono però venuto a sapere solo dopo.  Piuttosto ne ricordavo un’altra, indirizzata a Theo, suo fratello ed unico costante punto di riferimento. “Ho dipinto degli enormi campi di grano”, vi scriveva,  cercando di esprimervi “estrema tristezza e solitudine”.  E queste, come  credo tutti,  vedevo su quella tela. E la disperazione delle spighe sferzate dal vento; di quelle pennellate gialle che  gemono come anime dannate. E l’angoscia di quell’oscurità, là in alto, che sta per calare. Una lettura melodrammatica? Forse. Certo non frutto della mia sensibilità giovanile: se dovessi  dare un volto al dolore di vivere,  anche oggi  che di giovane non mi resta nulla, sceglierei questo quadro. Anche perché so che Van Gogh, in quel luglio 1890, stava male sul serio. Il direttore della clinica di Saint-Rémy-de-Provence, dove era rimasto ricoverato per un anno per curarsi da una “latente epilessia mentale”, lo aveva proclamato guarito, ma non lo era per nulla. Se n’era accorto anche Theo che, rivedendolo a Parigi, gli aveva suggerito di trasferirsi ad Auvers-sur-Oise  per stare vicino al dottor Gachet (certo, quello del ritratto) che forse poteva aiutarlo Per questo Vincent era ad Auvers, tra i campi di grano. Ed era davvero  solo. Sì, perché era poi riuscito a litigare anche con Gachet  e non rivolgeva parola ad altri. Solo davanti alle scelte della vita, mi ero detto già allora, pensando a quelle che mi aspettavano e notando, come non mi era accaduto guardando le riproduzioni, con quanta enfasi fossero stati dipinti quei tre sentieri in primo piano. Chissà se c’erano davvero? Chissà cosa rappresentavano per lui?  Theo si era appena sposato e stava per  mettersi a commerciare arte per conto proprio. Avrebbe continuato ad aiutarlo? Sarebbe stato ancora in grado di farlo? Forse erano questi, terribilmente pratici, i dubbi nella mente di Vincent, in quei giorni. Di certo, senza qualche soldo passato dal fratello non poteva illudersi di continuare a fare il pittore.
Aveva 37 anni e non aveva venduto un solo quadro.
Perché? Per lo stesso motivo per cui la sua pittura tanto ci affascina. Per quei suoi colori e quelle sue pennellate. Colori puri, perché appaiano più intensi, e pennellate tanto spesse da risultare evidenti, che usa con perfetta coscienza. Si porta sempre dietro una cassettina piena di gomitoli colorati. Li accosta per avere un’idea dell’effetto che faranno, sulla tela, quel giallo e quel blu o quel rosso, messi uno accanto all’altro. Il suo scopo? Lo scrisse a Theo, l’11 agosto del 1888: “Non cerco di riprodurre esattamente quel che mi trovo davanti, faccio un uso più arbitrario del colore per esprimermi  con più forza”.  Ed è questa forza, questa visione tutta personale della realtà, a scontrarsi con i gusti di una società e di una cultura intrise di positivismo, che ancora credevano nella possibilità di certezze assolute. Un clima cui non sfuggono gli stessi impressionisti, in fondo dei continuatori del programma classico della Civiltà Europea, che mirano a rappresentare con ancora più precisione, addirittura con scientifica determinazione nel caso dei divisionisti, l’apparenza del reale. Van Gogh, fa altro. Riprende il discorso dei romantici e va oltre. Non dipinge  il proprio con-sentimento con il mondo. Proietta sul mondo e sulla tela tutti i propri turbamenti. Le proprie angosce. Le stelle che vorticano nel suo cielo sono quelle che lui, solo lui, vede. E’ un lirico che canta mentre nessuno è disposato ad ascoltare poesia. Anche il più umile dei soggetti (sì, in questo la penso come Meyer Schapiro) è trasformato dalle sue pennellate in un auto-ritratto. Espone la propria anima agli sguardi di una società che nasconde la propria dietro la maschera della rispettabilità borghese. Che non rifiuta le sue opere, ma, peggio, neppure le degna di uno sguardo.
“Una persona sana non si taglia un orecchio”, mi ha spiegato un’amica psicologa: “Era uno psicotico con una schizofrenia latente”. Un altro amico, medico, qualche tempo dopo mi ha detto che le vertigini e gli altri i sintomi che Van Gogh descriveva nelle sue lettere a Theo, e poi diagnosticati per epilessia, coincido piuttosto con quelli della Sindrome di Meniere, una patologia dell’orecchio interno di cui ancora non sono bene note le cause. Forse hanno ragione entrambi. Finalmente uscito dal museo, però, mi dissi allora che chiunque, al posto di Van Gogh, sarebbe impazzito. Chiunque, convinto  come lui di possedere una verità e lasciato solo, isolato, ad urlare nel vento. Una verità, quella della sua pittura, in cui lui, nonostante tutti i suoi dubbi esistenziali, credeva fermamente. Una certezza tutt’altro che folle; che noi moderni confermiamo con la venerazione che attribuiamo ad ogni suo quadro: ci pare tanto evidente, ora, che siano opera di un genio.
Non avevo ancora letto, allora, Van Gogh il suicidato della società, che sarebbe stato pubblicato in italiano solo qualche anno dopo, ma ero giunto a conclusioni non troppo diverse da quelle che Antonin Artaud espone il quel suo saggio. Conclusioni che, nonostante tutto, ritengo ancora valide. Van Gogh non aveva nervi saldi come rocce? Vero, probabilmente, ma chi li ha?  Il suo destino, piuttosto, non mi pare diverso da quello di tanti altri profeti, condannati dall'ignoranza dei loro tempi, a tenere per sé le proprie visioni. Lasciati in un cantuccio a parlare contro un muro; in un modo o nell'altro, neutralizzati. A volte, magari senza troppa premeditazione, con l'apposizione a posteriori di un'etichetta capace di ridurre a ben poca cosa la radicalità del loro pensiero: pensate a Leopardi e al suo titanico realismo volgarizzato in sterile pessimismo. Spesso, come nei casi di Wilde o Pasolini occupandosi più dei loro comportamenti privati, giudicati scandalosi, che delle loro opere. Ancora più spesso è proprio marchiandoli come folli, che le società evitano il confronto con i propri più acuti critici. Artaud cita Poe, Baudelaire, Hölderlin, Coleridge e Nietzsche; a me vengono in mente anche Ezra Pound ed Alda Merini. Voi avrete pensato ad altri.
A nomi noti, però. A personaggi che, magari dopo la loro morte, la storia ha vendicato. Ma quanti, con un talento di poco inferiore al loro, sono stati dimenticati? Soprattutto, quanti, oggi, sono come loro? Siamo certi che quel trentacinquenne o giù di lì male in arnese, con i capelli arruffati e lo sguardo folle di chi ha smarrito la dritta via, non sia un altro Van Gogh?
Chiediamocelo, soprattutto in questi tempi in cui è massimo il sospetto verso il diverso. Chiediamocelo, se abbiamo qualche capello bianco, recuperando almeno lo spirito, se non i sogni, di quanto ce ne andavamo per le strade d’Europa con lo zaino in spalla e pochi soldi  in tasca. E quale che sia il cammino della vita che abbiamo poi preso, torniamo, magari una sera, a guardare Il campo di grano con volo di corvi. Per ammirare un capolavoro di uno dei più grandi pittori “a pennello carico” della storia dell’Arte. Per riconoscere in quei corvi, che se ne stanno appesi a quel cielo tempestoso con le loro alacce nere, gli avvoltoi di ogni conformismo.
Sempre che non siamo anche noi, sospinti dal vento dell’omologazione, lì a volare con loro.

P.S. Ho citato esplicitamente: Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi, 1988. Implicitamente, un articolo di Meyer Schapiro: The Still Life as a Personal Object. A Note on Heidegger and van Gogh,  del 1968 che qui potete trovare in Italiano : http://www.ec-aiss.it/biblioteca/pdf/15_corrain_semiotiche_pittura/corrain_semiotiche_pittura_cap14.pdf
Heidegger fu il primo filosofo a dire la sua sulle “scarpe di Van Gogh”. Lo fece nel 1935 in uno scritto, Dell’origine dell’opera d’arte,  poi pubblicato solo nel  1950 in Sentieri interrotti e che potete trovare qui: http://www.unipa.it/~estetica/download/Heidegger.pdf
Derrida, offri un’interpretazione diversa delle stesse opere nel 1978 in La verità in pittura, edito da Newton Compton ma ora fuori catalogo.
A chi fosse interessato ad una lettura in chiave psicanalitica dell’opera di Van Gogh, suggerisco di leggere, di Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, 2009.


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