venerdì 23 gennaio 2015

UMBERTO BOCCIONI, FORME UNICHE DELLA CONTINUITA' NELLO SPAZIO

"Un segno tanto forte da essere impresso nella memoria visiva di tutti".


La fusione esposta al MoMa. Bronzo, altezza 126,4 cm.

Elettricità e motori. Notti che si illuminano e automobili che rombano. Nei cieli volano i primi aeroplani. Potenza e bellezza delle macchine che ha già incantato Walt Whitman. Progresso irresistibile che canterà Majakovskij. Velocità, questa è la parola chiave di un futuro che è ancora tutto nuovo. 


Tanto da far sognare anche un inglese come H.G. Wells o da procurare incubi anche ad un americano, Edgar Allan Poe, che l’aveva intuito. E idee nuove. Nietzsche che uccide Dio e ci chiede di diventare superumani. Bergson che lega la vita al cambiamento, sotto la spinta dell’Élan;  che afferma, soprattutto, che l’esperienza stessa è fatta di molteplicità e frammentazione. Un turbine, un uragano, di novità. Tanto violento da scuotere intere società; da essere avvertito ancora più acutamente da chi vive in un paese che moderno forse sta diventando, ma non lo è ancora. Un vento capace di mettere i nervi allo scoperto a chi ha la pelle sottile  del poeta. A persone come lui: Filippo Tommaso Marinetti.

Fa caldo. Siamo in città. Una serata di noia tra amici. Sentiamo arrivare tre auto con degli altri amici. Marinetti, descrive così la stessa situazione: “Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbotto di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolio dell’ossa  dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umide verdure, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici”. Raggiungiamo i nuovi arrivati, e saliamo sulle loro auto. Marinetti e i suoi? Appena arrivano accanto alle “tre belve sbuffanti” sentono il bisogno irresistibile di “palparne amorosamente i petti”. Partiamo. Andiamo a fare un giro tutti assieme; noi nel nostro secolo e il poeta nel suo. Chi è al volante si distrae. Forse ha già bevuto un po’ troppo. Finiamo in un canale. Noi, riavutici dallo spavento, abbiamo un momento d’indecisione: tra ringraziare il cielo perché non ci siamo fatti niente e ricoprire d’insulti il guidatore. Filippo Tommaso, invece, prima innalza una lode “Oh, fossa materna, riempita quasi al bordo di acqua ripugnante! Oh, fossa di drenaggio bella di una fabbrica”. Poi, ed è lui a dirlo, ancora coperto da capo a piedi da quel fango benedetto, quasi in estasi recita per la prima volta gli undici punti di quello che sarà il manifesto futurista.

Un manifesto che sarà poi pubblicato, col semplice titolo di Le Futurisme, sulla prima pagina di Le Figaro del 20 febbraio 1909. Si deve tenere presente, e spero che quell’aneddoto aiuti a farlo, che è nato in un secolo che non è il nostro, in un fervore che possiamo solo immaginare e da sensibilità diverse dalle nostre, quando lo si legge. Vi si dichiara che “Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”. E molti potrebbero ancora essere d’accordo.  Vi si decantano “il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. E qualcuno potrebbe dubitare che tanta esaltazione nasconda un disturbo neurologico. Il punto nove, in particolare, recita: “Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Di che far pensare, oggi, alle affermazioni di un folle misogino o di un ragazzino con le idee ancora molto confuse.

Allora, quell’inno alla modernità e alla velocità, ad  mondo nuovo da costruire dopo aver distrutto “i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie”, attrasse numerosi giovani e brillanti artisti italiani. Il manifesto dava loro un ruolo. Dovevano, con le loro opere, “aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali” e “dare l’assalto alle forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. Come ? Cantando “il vibrante fervore” delle officine. Facendo arte dei ponti in acciaio, delle locomotive, dei piroscafi e degli aeroplani. Un compito che accolsero con entusiasmo i pittori.

Un piccolo gruppo di loro, formula un Manifesto dei pittori futuristi,  che  rende pubblico l’ 11 febbraio 1910. Marinetti ed i poeti, dicono, sono sulla strada giusta e loro combatteranno al loro fianco nella battaglia per il rinnovamento dell’arte. A questo manifesto, ne segue un altro, a un mese di distanza: il Manifesto tecnico della pittura futurista. Lo firmano solo il cinque: Umberto Boccioni, Carlo  Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo, che poi, però, con i suoi intonarumori meccanici, si occuperà più che altro di musica.

Tra loro, Boccioni è l’artista più dotato. E’ ancora giovane. E’ nato il 12 ottobre 1882, a Reggio Calabria. I genitori sono romagnoli, ma il padre, uscere di tribunale, era di servizio lì. Vita difficile, allora, quella dei funzionari pubblici, con trasferimenti continui. E Umberto cresce spostandosi su e giù per lo stivale. Studia. Si diploma in un istituto tecnico di Catania. La pittura? Comincia a praticarla solo dopo l’arrivo Roma, sempre al seguito di papà, nel 1901. E’ li che conosce Severini e Balla. Frequenta anche la Scuola libera del Nudo e, per aggiornarsi, viaggia. Visita Parigi, la Germania e  la Russia. A Milano, arriva per la prima volta  nel 1907. Vi conosce Gaetano Previati, maestro del Divisionismo. Soprattutto, lì avviene il suo incontro fatale con Marinetti .

Di certo, tra gli artisti futuristi, Boccioni è il più brillante teorico. E, da poco, si è messo anche a scolpire.  Ovvio che sia suo il Manifesto tecnico della Scultura futurista, pubblicato a Milano l’11 aprile del 1912.  Un documento che non è solo un appello ad abbandonare la tradizione, bagaglio inutile nell’era delle macchine, ma che, fedele al proprio titolo, traccia le line programmatiche cui dovranno attenersi gli scultori che vogliano restare al passo con i tempi moderni.

Forme uniche della continuità nello spazio , che Boccioni completò un anno dopo la pubblicazione del Manifesto, non segue pedissequamente quelle direttive. Le tradisce, dicano quel che vogliono i manuali, quasi tutte. E forse proprio per questo è quello che è: un capolavoro; un segno tanto forte da essere impresso nella memoria visiva di tutti, prima che sulle nostre monete. Guardiamola. Dovremmo andare al Museo del Novecento di Milano, che ne conserva una fusione, per farlo come merita una scultura. Già dalle foto notiamo però che è fatta di tutto tranne che da  rette; da quelle linee che, nella sua settima conclusione, il Manifesto proclama essere le uniche che possano “condurre alla verginità primitiva”. E le “intersecazioni di piani” auspicate nella quinta conclusione,  dove sono? Sotto gli occhi abbiamo, piuttosto, qualcosa che somiglia dannatamente ai “grovigli di muscoli” che lo stesso punto censura. E ancora. Le conclusioni tre e quattro impongono l’abbandono della “nobiltà tutta letteraria” del marmo e del bronzo per arrivare a sculture fatte di “piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, fili di ferro e reticolati …”. Non basta.  Altre conclusioni auspicano “una modernissima scelta di soggetti” e chiedono di “distruggere il nudo sistematico; il concetto tradizionale della statua e del monumento”. E noi cosa vediamo? Una statua in fondo tradizionale che rappresenta, con proporzioni decisamente monumentali, un soggetto tanto antico quanto la figura umana. Una statua di bronzo, per di più. Vero, si tratta di una fusione  (nei vari musei ve ne sono una dozzina, effettuate in tre momenti diversi)  ricavate dal gesso originale dopo la morte dell’artista, ma dell’auspicata polimatericità, neppure in questo v’e traccia.  Quel che di vi è di nuovo, di futurista, in quest’opera di Boccioni è il tentativo di rendere, con i mezzi della tradizione, e le conoscenze accademiche di sempre (guardate il modellato di quella coscia), le interazioni tra spazio e corpo in movimento. Movimento, si badi bene, non rappresentato come successione di immagini. Ispirati dalle crono-fotografie di Etienne Jules-Marey, Eadweard Muybridge e dei loro emuli, a questo mezzo ricorrono Duchamp nel Nu descendant un escalier e gli stessi pittori futuristi, a cominciare da Balla, per esempio nella Ragazza che corre sul balcone. Boccioni mira ad altro. Ad una resa psicologica, drammatica e non analitica, della velocità. Vuole colpirci, con la figura di una macchina-uomo fatta di muscoli che si gonfiano e tendini che si rilevano. Di forme che, a causa della velocità, nella nostra percezione si sdoppiano; di pieni che si svuotano e vuoti che si fanno pieni.  Forme aperte, dai contorni strinati dal vento; gambe a cui sembrano spuntare delle alette. Rappresentazione ad un tempo dell’uomo e dell’atmosfera in cui si muove: del vento che lo affila; della velocità che si sostituisce all’evoluzione rendendolo nuovo, diverso, aerodinamico.  Soprattutto, Boccioni vuole offrirci un visione simultanea  (e per lui simultaneità è la parola chiave dell’estetica futurista) del corpo in movimento e dello spazio che questo movimento modifica. L’uomo avanza? Rispetto a lui, le case, gli alberi e tutto il paesaggio arretrano. Anzi, attorno a lui lo spazio si deforma. Sì, proprio così, quasi che l’artista fosse arrivato ad avere un’intuizione poetica della relatività einsteiniana. Spazio che il corpo fende, con quel ginocchio che avanza. Corpo che lo spazio scompone, dilata, scava. Guardiamo il torace: convesso a destra, diventa una vuota cavità a sinistra.

E’ pero solo un dettaglio, per quanto importante. Non è quel che notiamo subito, mettendoci di fronte alla statua. La scultura è, per prima cosa, una determinata distribuzione di masse. E noi queste vediamo innanzitutto. Masse che non ci danno un immediata impressione di velocità; che anzi ci pare descrivano una figura umana che avanza a fatica. Nello lo spazio e contro il vento? Contro tutto. Eroica. Titanica. Dai volumi … c’è solo una parola per definirli: michelangioleschi.  Di quel Michelangelo che Boccioni spingeva a ripudiare, ma pure ammetteva essere stato un “genio che fu nel passato il più grande astratto che si esprimesse per mezzo del concreto”.  Un genio tanto grande da contribuire a definire la forma, l’anima di una delle sculture iconiche del XX Secolo.

Un Maestro con cui Boccioni avrebbe forse continuato a dialogare, come solo gli allievi più brillanti sanno fare, e come avrebbe poi fatto Moore, se solo non fosse morto con l’uniforme addosso il 17 agosto 1916. C’era la guerra e lui si era arruolato. Ad ucciderlo, non fu una pallottola nemica, ma una banale caduta da cavallo, in addestramento, alle porte di Verona. Aveva fatto già fatto in tempo, ad ogni modo, ad accorgersi che la guerra non era per nulla igienica. La vita militare, scriveva nella sua ultima lettera, “è fatta di noia e pidocchi”.


PS Tutte le fusioni della statua conservano i plinti che Boccioni aveva lasciato come base del gesso originale. Non sono affatto certo che, fosse stato vivo, avrebbe voluto così. Credo anzi che nelle versione definitiva, in marmo o bronzo, avrebbe voluto una base continua, unica, e che avesse scelto di usare i plinti solo per economia di materiale. Com’è esposta oggi, la figura pare trascini due mattoni o due blocchi di cemento. Bisognerebbe avere il coraggio di liberarla.

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