mercoledì 26 novembre 2014

JOSÉ SARAMAGO, L'ULTIMO DEI VEDENTI




Lo conobbi grazie ad Ennio, che è stato il mio libraio di fiducia fino a quando, una decina d’anni or sono, la concorrenza delle grandi catene di librerie e l’aumento dei costi di gestione, lo hanno costretto ad abbassare la serranda della sua secolare libreria: uno di quei posti con i muri ricoperti di scaffali di legno scuro e l’aria impregnata dell’odore della carta e dell’inchiostro che ormai è quasi impossibile trovare, non solo in Italia.
Era il 1996 e vivevo già all’estero da quindici anni. Tornavo nella mia città natale, un paio di volte l’anno, più per andare in quella libreria e fare scorta di libri italiani che per visitare i pochissimi conoscenti che mi erano rimasti in quel civilissimo borgo selvaggio dove mi trovavo sempre più sperduto; il lago era sempre lo stesso e uguale rimaneva la fredda cortesia della gente, ma diverso era l’egoismo senza remore, elevato a virtù, che si respirava ovunque e nuovo era il cinismo che animava anche le menti più brillanti.
Una riduzione al minimo del sano realismo lombardo che stava rendendo la vita pubblica, incurante della decadenza sempre più evidente delle cose e delle idee, quel che è ora: un lotta tra bruti per occupare l’angolo più asciutto della caverna. 

“Conosci Saramago? Dagli un’occhiata”, mi disse Ennio mettendomi nelle mani uno spesso libro pubblicato da Einaudi. Io non avevo mai sentito prima quel nome. Lessi il risvolto di copertina. Scoprii che l’autore non era italiano e, più ancora, che il prezzo che avrei dovuto pagare per portarmi quello sconosciuto portoghese era tutt’altro che modesto; ne sapevo abbastanza per restituire il libro ad Ennio. Stavo per accompagnare il mio gesto con un “sai che non amo le traduzioni” che mi avrebbe consentito di rimarcare, anche in quella ritirata, la mia seriosa intellettualità quando lui mi anticipò: “Aprilo. Prova a leggere una pagina o due”.
Mi trovai davanti un muro compatto di scrittura; le pagine non avevano spazi bianchi.
L’autore non usava quasi mai il punto e a capo e, cosa ancora più sorprendente, non usava i due punti per introdurre i dialoghi né le virgolette per separarli dal resto del testo. Le frasi pronunciate dai personaggi erano precedute da una semplice virgola e la lettera maiuscola con cui iniziavano era l’unico aiuto offerto, all’occhio del lettore, per individuarle. Borges scriveva che “se la poesia fosse fatta di novità durerebbe lo spazio d’un mattino” e io, per solito, ho nei confronti delle innovazioni lo stesso scetticismo.
C’era però qualcosa in quella scrittura che mi attraeva; l’invito implicito a conoscere, se non un altro linguaggio, un modo diverso di raccontare. Quello ed un “è uno di quei libri che si ricordano”, piazzato da Ennio al momento giusto fecero finire “Cecità” in cima alla pila dei mie acquisti.
Lo lessi qualche mese dopo essere tornato a casa, quando le mie scorte di letteratura si erano già parecchio assottigliate; prima, tra quello che avevo acquistato da Ennio, avevo letto altro, ma non saprei cosa: non erano libri che si ricordano, evidentemente.
Tra quelle pagine, mi ritrovai in un città sconosciuta che avrebbe potuto essere quella in cui vivevo o quella in cui ero nato, in compagnia di personaggi senza nome proprio, che avrebbero potuto essere chiunque, ad assistere allo sfaldarsi, al diffondersi d’una epidemia di cecità. Una cecità bianca – io la interpretai come la luce degli onnipresenti televisori, ma è solo una mia personalissima lettura – che le autorità cercano di contenere isolando i contagiati, ma senza riuscirci. Tra i ciechi rinchiusi in un manicomio, abbandonati a se stessi quando il contagio si diffonde nel resto della società, ben presto le relazioni si sfaldano; la loro vita diventa una lotta per la sopravvivenza dove a fatica si riconoscono i buoni dai cattivi.
Nel manicomio l’uomo è ridotto a forma di vita puramente biologica senza alcun diritto, come in un campo profughi o in un lager. La società si riduce a nulla; si decostruisce fino al livello zero dello stato di natura hobbesiano e si ricostruisce, ingiusta e brutale, sotto il controllo del potere – verrebbe da dire costituente – dei “ciechi malvagi” più forti e violenti.
Guidati da una donna che ancora vede, “la moglie del medico”, alla fine i ciechi riusciranno a liberarsi, ma per farlo dovranno uccidere e dar fuoco alla loro prigione. Fuori li attende, in un mondo dove tutto è allo sfacelo, la possibilità di riorganizzare la vita del proprio gruppo; di ricreare un noi. Il romanzo finisce proprio lì, quando improvvisamente, i ciechi ritornano a vedere e, “la moglie del medico” teme, quasi fosse una conferma della propria differenza, d’essere diventa cieca.
“Cecità” mi colpì come nessun romanzo prima o dopo; ero reduce dalla Jugoslavia e avevo potuto vedere che cosa potesse causare un’epidemia di cecità come quella che descriveva Saramago. Di più, avvertivo che focolai della stessa cecità, in forme appena diverse, fossero attivi ormai ovunque nel mondo occidentale; che cecità – da quella provocata dagli intrattenimenti obbligatori e continui a quella volontaria di chi, intellettuale ridotto a isolato sciamano, rifiuta di vedere la fine dei propri sogni - fosse il nome giusto per la malattia tipica di quest’ultimo rantolio della modernità che è la nostra epoca.
La stessa ricchezza di temi, trattata nello stesso stile, ho ritrovato negli altri romanzi di Saramago che ho letto, solitamente nella traduzione inglese, nel corso degli anni; in ogni sua opera ho trovato una chiave di lettura del reale, del presente, valida per mille reali e mille presenti: se la grande opera d’arte fa del particolare cosa generale e riduce i grandi temi alla trattazione del particolare, Saramago è un grandissimo.
Amico di Garcia Marquez ed ammiratore di Borges, condivide tratti e temi con ognuno di loro ma, più di loro, è calato nel presente; più di loro è scrittore impegnato.
L’impegno di Saramago si traduce in una continua denuncia dell’inumano dentro l’umano; in un’analisi dei meccanismi con cui il potere opera – penso al “Saggio sulla Lucidità”, ideale continuazione di “Cecità”- e delle trasformazioni che la società subisce, non sceglie, a causa del mutare delle strutture economiche: è il tema de “La Caverna” che, con le altre due opere citate finora, costituisce la trilogia che Saramago dedica al nostro tempo.
Amo talmente Saramago da avere iniziato, da circa un anno, a leggere le sue opere in portoghese - vivo in Galizia ormai da quattro anni e leggo bene il galego, lingua che al portoghese è assai simile -; la notizia della sua morte mi ha raggiunto mentre sul mio comodino si trova, con un segnalibro infilato a mezzavia , “A Jangada de Pedra”, e ho appena finito di leggere “O Homen Duplicado”, un romanzo sul tema, assolutamente borgesiano, del doppio.
Ero indeciso su che leggere dopo; pensavo al “Memorial do convento”, che il mio libraio oltre confine – certo, è una gran cosa internet, ma nessuno, quando compro un libro qui dentro, mi offre un caffè, si siede a fumare una sigaretta con me e mi consiglia che cosa scegliere – dice che sia un capolavoro al livello di “Cecità”, ma dopo aver letto il necrologio che l’Osservatore Romano riserva all’autore portoghese ho cambiato idea: leggerò “O Evangelho Segundo Jesus Cristo”. Per meritare parole così dure da parte vaticana, deve essere un libro che merita d’esser letto.
Ha subito critiche da ogni lato, in vita e ora pure da morto, Josè Saramago; è proprio quel suo impegno che non gli viene perdonato. Un impegno che non finiva certo con la sua attività di romanziere, ma che lo portava ad interessarsi attivamente alle vicende della politica del suo paese – proprio per dissapori legati alla politica portoghese si era auto-esiliato alle Canarie – come di qualunque altro ove avvertisse che la libertà fosse in pericolo.
L’Italia, paese che amava profondamente e del quale ammirava la cultura, era diventato, negli ultimi anni, uno di quelli a cui dedicava la propria attenzione espressa nei commenti che scriveva nel suo blog.
Italiani erano alcuni dei suoi migliori amici di sempre, a cominciare da Dario Fo, e amico suo è diventato Roberto Saviano con cui intratteneva una fitta corrispondenza.
Feriva Saramago il degrado delle nostra democrazia; il declino della civiltà politica del nostro paese. Aveva per Silvio Berlusconi parole durissime: “ Qualcuno capace di corrompere e comprare la volontà altrui è capace di tutto. Berlusconi lo ha fatto. Non si può dire che qualcuno non sia un delinquente solo perché non ha ucciso nessuno o non ha mai fatto una rapina a mano armata. Si può esserlo in tanti modi”.
Con buona pace di coloro che sostengono che nel nostro paese ci sia ancora piena libertà di stampa, proprio per affermazioni simili a questa Einaudi, la casa editrice che aveva pubblicato tutte le opere di Saramago fino a quella, rifiutò di pubblicare il libro che lo scrittore aveva tratto dal suo “blog di combattimento”.
Ci volle l’impegno personale di Flores d’Arcais – un altro dei suoi amici italiani – per aggirare il rifiuto della casa editrice del gruppo Mondatori, di proprietà del proprietario di tutto: “Il Quaderno” è stato alla fine pubblicato, in italiano da quella piccola editrice dalla grande storia che è Bollati Boringhieri ed ha avuto un clamoroso successo.
Non resta che leggerlo per scoprire che si può essere, in un mondo di ventenni che sopravvivono come anime alla deriva in un vuoto fatto di giochini e poco altro, bloggers arrabbiati e lucidi anche alla soglia dei novant’anni.
Che per costruire un futuro migliore, se si vuole uscire dalle proprie caverne e vedere, non è mai troppo tardi.

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